Comune di Vercelli Scrineum
Liber Matriculae Progetti

LIBER MATRICULAE
Il Libro della Matricola dei Notai di Vercelli
(sec. XIV - XVIII)

a cura di Antonio Olivieri

 

Introduzione

 

Introduzione alla Matricola del Collegio dei notai di Vercelli
Nota sulle abitudini cronologiche dei notai vercellesi

La Biblioteca Civica di Vercelli

Bibliografia

Introduzione all’edizione

Edizione

 

Scrineum
© Università di Pavia 1999

 

 

 

 

 

 

Introduzione alla Matricola del Collegio dei notai di Vercelli

Che cos’è il Libro della Matricola del Collegio dei notai di Vercelli?
Per rispondere a questa domanda in modo sintetico bisogna innanzi tutto ricorrere a un altro documento fondamentale del Collegio: lo Statuto, vale a dire una sorta di regolamento interno, articolato in due parti e sessantanove capitoli, elaborato con ogni probabilità dai notai che costituirono il nucleo fondatore del Collegio. Tale Statuto fu proposto per la correzione e l’approvazione all’autorità viscontea (del cui dominio Vercelli faceva parte ormai da un sessantennio) prima del 26 maggio 1397. In quel giorno infatti il duca di Milano, che allora era Gian Galeazzo Visconti, promulgò il testo statutario. Esso era, per così dire, la carta costituzionale del Collegio: ne disegnava la struttura definendo funzioni e compiti dei suoi dirigenti; ne definiva lo spazio di azione, configurandolo come un vero e proprio ambito giurisdizionale autonomo seppure coordinato con le istituzioni di governo cittadine; dettava, infine, insieme a molto altro, le norme per il reclutamento dei suoi membri. Proprio queste ultime interessano il nostro discorso.
L’ammissione di un nuovo membro al Collegio venne regolata dal capitolo sedicesimo della prima parte dello Statuto. Il candidato doveva rispondere a una nutrita serie di caratteristiche, come quella di essere in una età compresa tra i diciotto anni e i quaranta, nato da legittimo matrimonio, libero per condizione giuridica, istruito nella grammatica latina e in grado di scrivere (lo scrivere era allora, per strumenti e tecniche, una pratica assai più complessa di quanto non sia oggi). Doveva poi promettere di essere fedele al Collegio, di osservarne lo Statuto e altre eventuali regole stabilite dopo la sua fondazione e obbedire agli ordini dei suoi massimi dirigenti, i consoli. La procedura di ammissione prevedeva un esame di latino, al termine del quale il candidato veniva accettato o respinto con un voto a maggioranza della commissione d’esame.
Il candidato promosso, dopo aver pagato una serie di tasse d’entrata e «antequam describatur in matricula notariorum dicti collegii» (e prima di essere iscritto alla Matricola dei notai del Collegio), doveva essere formalmente investito dell’ars notaria (vale a dire della funzione di notaio, non della qualifica, che veniva ottenuta per altra via). L’atto di tale investitura doveva essere redatto in forma di pubblico instrumento (detto, nello statuto, «instrumentum receptionis et investiture») rogato dal notaio del Collegio.
L’iscrizione a una matricola è quindi già prevista nel sedicesimo capitolo dello statuto come momento ultimo del complesso rito di entrata di un notaio nella Società notarile vercellese del tardo medioevo. Ma è il capitolo statutario successivo che definisce compiutamente le caratteristiche di questo importante strumento scritto. Vi si parla della necessità, al fine di evitare frodi, che i consoli e gli altri officiali del Collegio facciano fare una «matricula libri cartarum membranarum», dunque un libro di pergamena che funga da matricola, nella quale vengano scritti tutti i nomi e cognomi di tutti i notai appartenenti al Collegio. Tali nomi devono esservi scritti «per parrochias et loca», vale a dire, interpretando il testo, ordinati secondo i luoghi di residenza dei notai, sia che fossero in città, e dunque in una delle zone facenti capo a una parrocchia cittadina, sia che fossero in campagna, in uno dei villaggi del distretto di Vercelli. L’iscrizione alla Matricola faceva fede dell’appartenenza di ciascun notaio al Collegio.
Veniva stabilito che in ciascuna matricola, scritta dalla mano stessa di ciascun notaio, comparissero, oltre al nome e cognome del notaio ammesso al Collegio, l’indicazione del luogo di sua residenza, il nome di suo padre, l’anno, il mese e il giorno della sua ammissione alla Società, cioé, come si ricorderà, della redazione da parte del notaio del Collegio dell’«instrumentum receptionis et investiture». Accanto al nome del notaio doveva inoltre essere apposto il signum tabellionis «sive cirographo», vale a dire il segno autografo distintivo del singolo notaio, delle cui caratteristiche la Matricola del Collegio dei notai di Vercelli offre una ricchissima esemplificazione per il tardo medioevo e l’età moderna.
Il Libro della Matricola doveva poi essere conservato nell’archivio del Collegio (detto «sacristia») sotto la responsabilità del funzionario eletto al ruolo di archivista (il «sacrista»: si veda il capitolo nono della prima parte dello Statuto).
Infine lo stesso diciassettesimo capitolo precisa che solo i notai iscritti alla Matricola, quindi appartenenti al Collegio, avrebbero potuto esercitare la professione notarile nella città e nel distretto di Vercelli. I documenti redatti da altri notai sarebbero stati nulli e ai notai trasgressori sarebbe stata inflitta una pena pecuniaria.
Tra la teoria e la pratica, come spesso accade, ci fu uno scarto. Nel caso in questione fu di poco conto. Le iscrizioni dei notai alla Matricola non furono infatti ordinate «per parrochias et loca», ma aggiunte l’una all’altra in ordine cronologico, via via che nuovi notai venivano ammessi al Collegio. In realtà anche tale ordine cronologico soffrì delle eccezioni e i motivi stettero o nell’aggiunta di iscrizioni posteriori accanto e in mezzo a iscrizioni anteriori in spazi lasciati in bianco, oppure nell’apposizione di iscrizioni in pagine ancora bianche, trascurando lo spazio rimasto in pagine precedenti. Si tratta, come si è detto, di eccezioni e inoltre di eccezioni dovute a ragioni puramente meccaniche. Altre violazioni dell’ordine cronologico furono invece dovute a ragioni attinenti ad abitudini instauratesi nell’adempimento delle formalità necessarie all’entrata nel Collegio: accadde infatti che si cominciasse a rimandare il momento dell’iscrizione alla Matricola, che veniva così a distanziarsi in modo notevole dal momento della redazione del documento di investitura (l’«instrumentum receptionis et investiture» più volte citato). Al notaio così, all’atto dell’iscrizione alla Matricola, poteva succedere (e successe in effetti in una ventina di casi) di dimenticarsi il giorno e il mese della sua ammissione al Collegio, talvolta addirittura l’anno. Ciò che non dimenticava era invece il nome del notaio che aveva redatto il documento di ammissione al collegio, nome che si cominciò infatti a segnare con regolarità nella Matricola a partire dal 1512.
È ora opportuno soffermarsi su qualche dato storico ricavabile dalla Matricola. Le prime iscrizioni si ebbero il 2 giugno 1397 (il decreto visconteo di approvazione dello statuto era del precedente 26 maggio). Il primo giorno si iscrissero trentasei notai, tutti di Vercelli tranne uno, tal Giovannotto de Spasso, originario di Coggiola e abitante in un luogo detto Rovasino Nuovo. Nei giorni seguenti, dal 5 al 30 giugno, si iscrissero altri 47 notai, abitanti in Vercelli e in molti luoghi del distretto, tra cui Cerrione, Lessona, Sostegno, Ponderano e Palestro (quest’ultimo ora fa parte della provincia di Pavia). In quel primo anno si iscrisse ancora soltanto un altro notaio, il 6 ottobre, un Bartolomeo Galer abitante in Biella. È questo l’unico caso di iscrizione alla Matricola di un notaio di Biella.
Il primo anno si iscrissero quindi ottantaquattro notai. Sarebbe interessante vedere una tabella delle iscrizioni alla Matricola negli anni seguenti, anno per anno fino ai primi del Settecento. Le tabelle comprese in questo CD-ROM permettono di elaborare facilmente dati di questo genere. Qui ci si limiterà a dire che nei tre anni immediatamente seguenti al 1397, fino al 1400, si iscrissero poco più di venti notai. In seguito le iscrizioni, fino al 1450, si attestarono su una media annuale di 1,7. Si ebbero notevoli oscillazioni anno per anno: da un massimo di nove notai iscrittisi nel 1432 a nessun notaio negli anni 1406-1407, 1414-1415, 1419, 1423-1427, 1438, 1444-1446, 1448, 1450. Nei successivi cinquant’anni la media fu di circa 2 nuovi iscritti per ciascun anno. Nel cinquantennio 1501-1550 fu di 1,4; nel 1551-1600 di 1,6. Nel 1601-1650 la media scese a 0,5 nuovi iscritti per ciascun anno; nel cinquantennio successivo a 0,3. Infine, negli ultimi ventidue anni di vita del Collegio, dal 1701 al 1722, ci furono solo sei nuovi iscritti, per una media di 0,3 inscritti all’anno, come nel cinquantennio precedente.
La media delle nuove iscrizioni si mantenne quindi sostanzialmente stabile, attestandosi, dopo i primissimi anni, a poco meno di due nuovi iscritti all’anno, fino alla fine del XVI secolo. Poi cadde irreversibilmente, nell’ultimo secolo e poco più di vita del Collegio, a meno di un iscritto all’anno. Quando, nel 1723, il Collegio fu abolito in seguito all’emanazione delle nuove disposizioni in materia di collegi notarili contenute nelle Regie Costituzioni di Vittorio Amedeo II, esso non era più che la pallida sopravvivenza del passato tardo medievale e rinascimentale della città.
Certo, i dati qui offerti da soli non bastano per farsi una idea della consistenza numerica degli iscritti nei vari periodi di vita della società notarile vercellese. La media delle nuove iscrizioni andrebbe confrontata con la media dei decessi dei soci. Quest’ultimo dato non si può ricavare con la stessa precisione di quello relativo alle iscrizioni: la nota obituaria, vale a dire la nota di decesso del notaio collegiato apposta di consueto dal sacrista accanto alla sottoscrizione, non sempre fu effettivamente apposta, e inoltre è di contenuto assai variabile. A volte, infatti, l’annotazione è costituita da una semplice «Decessit» (è deceduto) o da altre frasi che non contengono il dato essenziale per il confronto che ora interessa, ossia l’anno del decesso. Tuttavia, tenendo conto degli elementi di casualità che vengono introdotti nel confronto di dati non omogenei, i sessantadue notai su ottantaquattro iscritti nel primo anno (1397) per i quali si dispone di una nota obituaria utile, morirono in media circa venti anni dopo l’iscrizione. Se si accetta questa media per buona, estendendola anche, con una operazione che ha dell’arbitrario, ai ventidue altri notai iscritti in quel primo anno per i quali non disponiamo di una nota obituaria utile, si ottiene che, per mantenere il livello numerico totale degli iscritti a ottantaquattro circa, si sarebbero dovuti iscrivere circa quattro nuovi notai ogni anno. Nei primi vent’anni la media di nuovi iscritti fu invece di circa 2,4 all’anno. Questo significa che il Collegio si ridusse in un ventennio a poco più della metà degli iscritti, riducendosi poi probabilmente ancora un poco ma mantenendo un livello misurabile sulla quarantina circa di iscritti fino alla fine del Cinquecento.
A prima vista, quindi, non sembra che tale Collegio sia stato poi gran cosa. Mancano però troppi elementi per poter emettere un giudizio sicuro, non ultimi i dati relativi alla consistenza demografica di Vercelli e del Vercellese in quel periodo. Non bisogna insomma cedere alla tentazione di svalutare il peso e il ruolo che la Società dei notai ebbe nella storia della Vercelli tardomedievale e protomoderna. La proposta di considerare verosimile l’ipotesi che il Collegio avesse dimensioni tutto sommato modeste costituisce qui solo un invito a valutare entro parametri corretti le vicende di una organizzazione che, nata in un clima di evidente entusiasmo e fermento, fu costretta in una secondo tempo a fare i conti con una realtà in cui gli spazi per l’esercizio della tradizionale egemonia dei ceti dirigenti cittadini sul territorio contermine si andavano riducendo.
Aldilà di queste genericità va ribadito che, per avere una storia credibile e significativa del Collegio, mancano molte informazioni che né il Libro della Matricola né gli Statuti — che qui, d’altra parte, non sono in questione — sono in grado di fornire. Occorrerebbe almeno conoscere il ruolo del Collegio nell’architettura politico-istituzionale cittadina e regionale, anche in relazione al cambio di regime che si ebbe nel 1427, con il passaggio di Vercelli dal Ducato Visconteo a quello Sabaudo. Gli statuti notarili di cui si è parlato all’inizio stabiliscono recisamente (cap. 17) per gli iscritti al Collegio il monopolio della professione del notariato nel territorio vercellese: solo un notaio iscritto al Collegio può rogare in quel territorio documenti validi. Inoltre si prescriveva che fosse il Collegio ad avere sul territorio vercellese giurisdizione sulle questioni relative all’esercizio dell’ars notaria. Ma non ci si può accontentare di una prescrizione, del testo di una legge. Occorre sapere come andarono poi realmente le cose: furono davvero attivi sul territorio solo ed esclusivamente notai iscritti al Collegio? e quale fu l’estensione e la reale conformazione di tale territorio? fu una estensione costante o variò con il tempo e il succedersi dei regimi politici? ci furono zone dove il Collegio non riuscì a penetrare o dovette subire la concorrenza di altri collegi (per esempio del Collegio di Ivrea dopo che, a partire dal 1427, Vercelli e Ivrea fecero parte della stessa compagine politica)?
Molte altre domande simili a queste bisognerà lasciare qui senza risposta. Ad alcune delle questioni di carattere territoriale, per la verità, un più approfondito esame della Matricola potrebbe iniziare a fornire qualche schiarimento. Prima di chiudere questa introduzione si può provare a dare qualche suggerimento in tal senso, abbozzando, per esempio, uno studio sull’andamento delle iscrizioni alla Matricola di notai residenti fuori Vercelli e la distribuzione geografica delle residenze di questi ultimi. I notai non vercellesi iscritti alla Matricola sono, unità più unità meno, circa un centinaio. Di altri, che pure probabilmente non risiedettero a Vercelli, non si può dire nulla di preciso, dato che omisero, all’atto della sottoscrizione, di indicare il luogo di residenza (si tratta di una ventina di casi almeno).
Anche qui ci si trova dunque di fronte alle ambiguità della fonte. Essa venne redatta, lo si ricordi, in un periodo in cui non erano ancora maturate le esigenze ‘statistiche’ che iniziarono a operare sugli studiosi di economia politica nel pieno e tardo Settecento. Eppure, anche in questo caso, con tutte le riserve che detta il buon senso, non dovrebbe essere difficile costruire un quadro attendibile delle provenienze geografiche dei notai non vercellesi iscritti nel Libro della Matricola del Collegio dei notai di Vercelli. Infatti, con un po’ di pazienza, è possibile creare delle aggregazioni significative e coerenti fra i circa quaranta luoghi della campagna vercellese e biellese attestati dalla Matricola come luoghi di residenza di notai: i risultati sono interessanti e, in qualche misura, inattesi. L’area di provenienza meglio attestata è senza dubbio l’alto Biellese, tra il torrente Cervo e il fiume Sesia, con Andorno, Bioglio, Cossato e Castellengo, che oggi è una frazione di Cossato, e ancora Lessona, Masserano, Roasio e un luogo forse vicino a Roasio detto Rovasino Nuovo e poi semplicemente Rovasino. Infine Sostegno, Serravalle Sesia, Trivero, Coggiola e Mosso, oggi Valle Mosso. In tutto ventotto notai, iscrittisi alla Matricola vercellese in un periodo relativamente compatto, che va dal 1397 al 1467.
Meno ricca di attestazioni è l’area a sud di Biella, verso il lago di Viverone, con Ponderano, Sandigliano, Zubiena, Cerrione e, più prossime al lago, Salussola e Cavaglià, per un totale di nove attestazioni tra il 1397 e il 1469. A questi luoghi vanno aggiunti due villaggi siti più a oriente, Mottalciata e Buronzo, attestati però solo nel Cinquecento avanzato.
Va poi citata l’area immediatamente a ridosso del Sesia, con Albano, Arborio Ghislarengo, Lenta e Gattinara. Anche in questo caso le attestazioni si distribuiscono abbastanza omogeneamente dall’istituzione del Collegio agli anni sessanta del Quattrocento. Fanno eccezione Albano, che vanta due iscrizioni tarde alla Matricola, del 1496 e del 1572, e Arborio, la località da cui provenne il maggior numero di notai collegiati non vercellesi: 12 notai dal 1397 al 1606.
Le località oltresesia documentate come luoghi di provenienza di notai iscritti al Collegio vanno distinte in due gruppi. Al primo gruppo vanno ascritte quelle in direzione del Novarese, Borgo Vercelli e Villata, ancor oggi comprese nella provincia di Vercelli, e quelle che, per lungo tempo attratte dall’orbita di Vercelli, oggi fanno parte della provincia di Novara, Biandrate e Recetto: in tutto, cinque iscrizioni dal 1399 al 1476. Al secondo gruppo vanno ascritte due località un tempo appartenenti alla porzione della diocesi di Vercelli situata in Lomellina, oggetto insieme a località circonvicine di accesi contrasti, che sfociarono in scontri militari, tra i comuni di Vercelli e Pavia: si tratta di Castelnovetto, attestata in una iscrizione del 1420, e soprattutto di Palestro, legata a Vercelli da una lunga fedeltà, se al Collegio dei notai Vercellesi aderirono 7 suoi notai dal 1397 al 1551.
Non resta che accennare ancora alla poco documentata area di pianura a nord-ovest di Vercelli, con le sole Olcenengo (residenza di un notaio iscrittosi nel 1473 e di un notaio iscrittosi in un anno imprecisato del Cinquecento) e Collobiano (residenza di un notaio entrato nel Collegio nel 1397); e alla pianura a sud della città, con Asigliano, Pertengo, Pezzana, Caresana e Motta de’ Conti. Tranne Pertengo, citata come luogo di residenza di notai nel 1397 e nel 1418, le altre località sono tutte documentate piuttosto tardi: dopo il 1460 o addirittura nel Cinque- Seicento, come Asigliano che, documentata una prima volta nel 1463, ha poi tre attestazioni seicentesche, o come Caresana, citata ben otto volte come luogo di residenza, ma solo a partire dal 1505.
Anche il quadro per così dire ‘geografico’ della Matricola è dunque piuttosto ricco e problematico: presenze fitte e vaste aree di assenza si distribuiscono sul territorio a macchia di leopardo. La storia che può risultare da una analisi approfondita di questa distribuzione, da farsi alla luce delle vicende territoriali e politico istituzionali di Vercelli nei secoli che interessano, va rimandata ad altra occasione. Qui basti l’aver tentato di definire che cosa fosse il Libro della Matricola del Collegio dei notai di Vercelli e l’aver suggerito alcuni dei piani di lettura possibili dei dati offerti da questo importante documento. D’altra parte l’intento di questo lavoro nel suo complesso è quello di offrire la possibilità di un contatto diretto e ravvicinato con una fonte storica, che si scelga o meno di essere accompagnati da questa sorta di ‘istruzioni per l’uso’ costituite dalle pagine appena lette.

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Nota sulle abitudini cronologiche dei notai vercellesi

È necessario offrire qualche breve delucidazione sui sistemi di datazione utilizzati dai notai vercellesi nella Matricola. Anche il calendario, infatti, ha la sua storia, ed è la storia dei diversi modi usati dagli uomini per computare razionalmente il trascorrere dei giorni, delle stagioni e degli anni; per fissare un dato periodo o un dato giorno in un certo punto sulla linea del tempo. Qui, per fortuna, ci si deve misurare con un metodo per noi familiare di fissare i giorni entro un quadro di riferimento: il calendario cristiano, noto a tutto il mondo occidentale, almeno nelle sue grandi linee, e ormai quasi universalmente diffuso.
Non nota a tutti è invece una circostanza fondamentale nell’avventurosa storia di questo calendario: l’inizio dell’anno, che per noi è il 1° gennaio, giorno in cui si celebra la circoncisione di Gesù Cristo, nel corso del medioevo e ancora nell’età moderna era fissato nelle diverse regioni dell’Italia e dell’Europa in giorni diversi dell’anno. A Pisa, per esempio, il capodanno era fissato il 25 marzo, giorno in cui si ricorda il concepimento di Gesù, nove mesi prima della sua nascita, fissata il 25 dicembre. Rispetto al nostro metodo il calcolo pisano degli anni era in anticipo di nove mesi e sei giorni. A Venezia invece l’inizio dell’anno era fissato al 1° marzo, con due mesi in ritardo rispetto al nostro: tale uso fu mantenuto fino alla caduta della Repubblica di Venezia nel 1797.
Ora, se si confrontano i due metodi citati (detti nel linguaggio tecnico ‘stili’: stile pisano, stile veneto) con il nostro, appare subito chiaro che gli stili in certi periodi dell’anno discordano fra loro, in certi altri concordano: lo stile pisano concorda con lo stile della circoncisione (il nostro) nei giorni che vanno dal 1° gennaio al 24 marzo, lo stile veneto concorda con quello della circoncisione dal 1° marzo al 31 dicembre. Ma se, come accade spesso, la formula di datazione di un certo documento oggetto di analisi non dichiarasse lo stile utilizzato, come si potrebbe determinarlo?
Spesso non è possibile fissare con assoluta certezza quale sia lo stile adottato. Nelle formule di datazione medievali però c’è un elemento che può essere utile a questo scopo: si tratta dell’indizione, un numero che segna la posizione di un dato anno entro un ciclo quindicennale. Quest’ultimo ha antiche origini (si pensa debba risalire all’Egitto del IV secolo d. C., dove costituiva un ciclo di imposizioni fiscali compreso tra un censimento e il censimento successivo, distanti tra loro appunto quindici anni): cominciò ad avere rilievo come elemento di datazione non perché si calcolasse il numero dei cicli indizionali trascorsi a partire da un primo ciclo, ma, come si è accennato, perché si calcolava la posizione dell’anno che si intendeva datare all’interno di un certo ciclo, non importa quale. Di conseguenza il numero indizionale può essere compreso tra 1 e 15. Il metodo pratico per calcolarlo è il seguente: si aggiunge 3 al millesimo e si divide la cifra ottenuta per 15; il resto è l’indizione. Se il resto è zero l’indizione è 15. Il quoziente è il numero ipotetico dei cicli indizionali trascorsi fino all’anno che interessa, numero che non ha nessun rilievo ai fini della datazione, come già si è detto. Se, per esempio, volessimo sapere quale numero indizionale corrisponde all’anno 1999 dovremmo dividere 2002 per 15 e otterremmo un resto di 7: 7 è l’indizione dell’anno 1999.
Anche gli anni compresi entro il ciclo indizionale hanno inizi differenti a seconda dei diversi usi: il numero indizionale può cambiare il 1° settembre, e si avrà allora l’indizione greca, oppure il 24 settembre, e si avrà allora l’indizione detta bedana (dal nome del monaco inglese Beda, vissuto fra il VII e l’VIII secolo, che ne diffuse l’uso), oppure tra il 25 dicembre e il 1° gennaio, e si avrà allora l’indizione detta romana.
Proviamo ora ad applicare le conoscenze tecniche acquisite a tre matricole presenti a carta 17v del Libro della Matricola del Collegio dei notai di Vercelli:

«(ST) Ego Philipus de Sandiliano filius condam domini Iacobi de Guidalardis de Sandiliano notarius publicus imperiali autoritate intravi collegium civitatis Vercellarum sub anno Domini currente millesimo ccccxxi, inditione xiiii, die xiii menssis ianuari et me propria manu in presenti notariorum matricula scripsi signumque meum officii tabelionatus appossui consuetum et me subscripsi.

(ST) Ego Daniel de Lonate filius domini Guillelmi de Lonate civis Vercellensis, habitans in dicta civitate in vicinia eclesie Sancti Salvatoris, publicus imperiali auctoritate notarius publicus Vercellensis milleximo quadragentesimo vigeximo secundo, indictione quintadecima, die lune xxviiii mensis decembris hora octave intravi dictum collegium notariorum comunis Vercellarum et me propria manu in presenti notariorum matricula scripsi signumque meum officii tabelionatus apposui consuetum et me subscripsi.

 (ST) Ego Dominicus de la Serrata filius Luchini de la Serrata civis Vercellensis, habitans in dicta civitate in vicinia Sancti Laurentii, publicus imperiali autoritate notarius publicus Vercellensis m°cccc° vigesimo secundo, indictione quintadecima, die mercurii xviii mensis novembris hora vesperarum intravi dictum collegium notariorum comunis Vercellarum et me propria manu in presenti notariorum matricula scripsi signumque meum officii tabellionatus apposui consuetum et me subscripsi».

Filippo de Sandigliano entrò nel collegio il 13 gennaio 1421. Anche il numero indizionale, verificato con il metodo indicato, concorda con questa data. Domenico della Serrata entrò invece l’anno successivo, correva l’indizione quindicesima, il 18 novembre, che era appunto di mercoledì, come si può verificare con l’ausilio di tavole cronologiche. Già in questo secondo caso si può notare che l’indizione usata da Domenico non era greca né bedana, perché altrimenti il numero indizionale sarebbe stato non 15 ma 1, essendo mutato il 1° o il 24 settembre.
Con Daniel de Lonate, invece, come la mettiamo? Interpretando alla lettera la data da lui offerta, il suo ingresso nel Collegio si dovrebbe fissare al lunedì 29 dicembre 1422. Ma, sempre con l’ausilio delle stesse tavole cronologiche ora citate, si può verificare che il 29 dicembre 1422 non era lunedì, bensì martedì. Siamo di fronte a un errore? Proviamo a fare un controllo: il 29 dicembre dell’anno precedente, 1421, cadeva in effetti di lunedì. Evidentemente Daniel datava secondo lo stile della natività (l’unica altra possibilità di far concordare millesimo e giorno della settimana sarebbe quella di supporre un uso dello stile dell’incarnazione pisano, uso che a Vercelli mi sentirei di escludere). Per quanto riguarda l’indizione, invece, a rigore non sarebbe possibile determinare quale fosse quella scelta da Daniel, ma, ipotizzando una omogeneità di usi cronologici all’interno del notariato vercellese, si potrebbe inclinare, prendendo come termine di confronto la matricola di Domenico della Serrata, per una indizione romana con cambio del numero indizionale al 25 dicembre.
Le tavole cronologiche citate sono contenute in un’opera indispensabile per effettuare questo genere di controlli:

A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, sesta edizione aggiornata, Milano 1988.

Un bel capitolo di storia del calendario, chiaro e ricco di informazioni, è compreso in:

C. Paoli, Diplomatica, nuova edizione aggiornata da G. C. Bascapè, Firenze 1987 (si tratta di una ristampa dell’edizione Firenze 1942).

Quest’ultima opera è poi in genere utilissima come base generale di informazione sugli aspetti formali del documento medievale, aspetti studiati da una disciplina che si chiama appunto diplomatica.
Con l’ausilio di queste e di altre opere citate nella Bibliografia è possibile  lo studio di molti dei problemi offerti dal Libro della Matricola. Per esempio: si è visto di sopra che Domenico della Serrata utilizzava l’indizione romana, con probabile cambio del numero indizionale al 25 dicembre, come sembra suggerire un confronto con gli usi cronologici della matricola di Daniel de Lonate. Nelle altre sottoscrizioni notarili presenti nel libro quale stile indizionale venne utilizzato? Va precisato intanto che è impossibile determinare lo stile indizionale per tutte le date con il giorno del mese compreso tra il 1° gennaio e il 31 agosto: in tale parte dell’anno, infatti, si ha lo stesso numero indizionale indipendentemente dallo stile utilizzato. Per il resto delle datazioni, con il giorno del mese compreso tra il 1° settembre e il 31 dicembre, si può procedere per esclusione. Si prendano prima tutte le date comprese tra il 1° settembre e il 23 dello stesso mese: se il numero indizionale contasse una unità in più rispetto al resto della divisione indicata di sopra come metodo pratico per la determinazione dell’indizione di un dato anno, vorrebbe dire che ci si trova in presenza di indizione di tipo greco. Anticipo qui che un controllo a tappeto ha consentito di escludere l’utilizzo dell’inizione di tipo greco. Ma per quanto riguarda quella bedana? Basta controllare tutti i numeri indizionali delle datazioni con giorno del mese compreso tra 24 settembre e 24 dicembre. Un esercizio che lascio a qualche eventuale curioso, che potrebbe esercitarsi, se volesse, anche su altri problemi relativi alle date di ingresso dei notai nel Collegio.

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La Biblioteca Civica di Vercelli

La Biblioteca Civica di Vercelli è l’istituzione che, oltre a un notevole patrimonio librario, accoglie in sé l’archivio storico del Comune di Vercelli e, con esso, il Libro delle matricole del Collegio dei notai di Vercelli, di cui qui ci si occupa. Un’istituto importante, dunque, cui è affidato il compito di conservare e gestire un materiale bibliografico e archivistico in continua crescita, mettendolo a disposizione di un pubblico non limitato al bacino per così dire ‘naturale’ della Biblioteca, che è quello della Provincia.
La Biblioteca fu aperta al pubblico il 15 novembre 1875, dopo un quindicennio di tentativi che vide impegnati uomini come il barnabita Luigi Bruzza, storico e archeologo di grande valore, lo storico locale Sereno Caccianotti, e Luigi Verga, sindaco di Vercelli e corrispondente della celebre rivista Archivio Storico Italiano. I fondi bibliotecari ammontavano allora a circa settemila volumi. A essi andavano aggiunte le carte dell’archivio storico del comune, sin dall’inizio uno dei nuclei costitutivi del patrimonio della Biblioteca e oggetto, nei decenni a cavallo dell’Unità d’Italia, di attente cure, in particolare a opera di Emiliano Aprati, e di appassionate ricerche, delle quali vanno qui ricordate almeno quelle di Vittorio Mandelli sul Comune di Vercelli nel medioevo e di Luigi Bruzza sugli storici inediti vercellesi e sugli artisti legati alla città. Queste iniziative vanno inquadrate in un ambiente senza dubbio provinciale dal punto di vista culturale e politico, ma non privo di tensioni e di momenti di vivacità.
Il patrimonio librario iniziale, nel quale erano presenti edizioni a stampa quattro- e cinquecentesche, si arricchì notevolmente: poco più di dieci anni dopo l’apertura della Biblioteca, essa contava più di venticinquemila volumi e opuscoli. L’incremento, allora e in seguito, fu dovuto anche alla generosità di privati: intellettuali, scrittori, collezionisti, che vollero lasciare in eredità alla biblioteca della loro città le loro raccolte librarie, talora ricche e importanti. Tra questi benefattori vanno almeno ricordati, tra gli altri, gli scrittori Giovanni Faldella e Archille Giovanni Cagna e lo storico Carlo Dionisotti.
Nel 1959 la Biblioteca fu spostata dalla sua sede originaria, al piano ultimo del palazzo comunale, a quella attuale, il palazzo settecentesco della nobile famiglia Vicario di Sant’Agabio in via Cagna, posto accanto al municipio, con il quale ha in comune la corte interna.
Attualmente la Biblioteca conserva più di seicento manoscritti di età tardomedievale e moderna, circa duecentomila tra volumi e opuscoli, numerosi periodici, tra i quali alcune rare riviste ottocentesche, cinquanta preziosi libri a stampa quattrocenteschi e un migliaio del secolo successivo.
Qualche cosa di più va detto, dato l’oggetto di questa pubblicazione, sull’archivio storico del comune. Esso non è un istituto a sé, come si è già accennato, e tuttavia mantiene, all’interno della Biblioteca, una sua forte individualità: per le caratteristiche del materiale di cui è costituito — documenti e non libri — e per gli stessi luoghi di conservazione, distinti dai depositi librari. Se ci si sofferma in particolare sulla porzione medievale e protomoderna dell’archivio, va poi aggiunto che essa, per la ricchezza e la varietà del materiale documentario di cui è costituita, è, insieme con quella astigiana, la più ricca del Piemonte: un gran numero di documenti su pergamena sciolta, alcuni rari libri iurium comunali (vale a dire codici contenenti trascrizioni di documenti in originale o in copia attestanti diritti del Comune) duecenteschi e trecenteschi (si ricordino i famosi Biscioni), codici statutari (gli statuti del 1241 con le successive modifiche, gli statuti viscontei del 1341), e poi, a partire dal Trecento inoltrato, vere e proprie serie archivistiche costituite da registri di carattere finanziario, giudiziario, verbali del consiglio comunale (i cosiddetti ordinati) e altro. Questa corposa documentazione reca testimonianza, naturalmente, della storia del comune di Vercelli: delle famiglie e degli uomini coinvolti nella politica comunale, delle istituzioni e della raffinata pratica politica e ammistrativa cittadina, dell’organizzazione di una territorio comunale (il districtus), che nel Duecento era assai più vasto di quanto non sia mai più stato in seguito. E ancora reca testimonianza, insieme con molto altro, di una amministrazione fiscale e giudiziaria, di un esercito, che, insieme con altri eserciti comunali, si scontrò a più riprese con milizie comunali nemiche e con le truppe dell’impero germanico. Nello stesso tempo quelle carte testimoniano anche, con la loro stessa consistenza e varietà, delle cure che furono loro dedicate, con ogni probabilità sin dal XII secolo. Quei documenti, insomma, stanno lì a ricordarci che sin da allora un Comune come quello di Vercelli — importante, certo, ma non del livello di comuni come Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, per restare alla pianura Padana — aveva organizzato un suo apparato di ufficiali comunali con relativi uffici, una fiorente produzione di documenti scritti e un archivio dove conservarli, detto a Vercelli officium camere turris (dal locale dove veniva conservato, situato in una torre comunale), con il suo impiegato, detto camerarius.
Un discorso a parte — che qui, per ovvie ragioni, si può solo abbozzare — va fatto per i corposi resti che l’archivio comunale conserva di quello che in origine era l’archivio del Collegio dei notai di Vercelli. Si conosce ancora piuttosto male la storia del Collegio, come si dirà altrove, e tuttavia si può ritenere che quando il collegio fu abolito, nel Settecento, il comune ne incamerò beni e documentazione. Fu allora che, con ogni probabilità, andò perduta una parte assai cospicua dei documenti del Collegio, relativa alla amministrazione interna dell’associazione, della cui esistenza abbiamo traccia in qualche pezzo superstite ancora conservato e in quanto si può leggere nello statuto del Collegio dei notai, risalente al 1397. La parte forse più importante è però giunta sino a noi: il Liber matriculæ del Collegio, oggetto della presente edizione, e un inestimabile patrimonio di protocolli notarili, vale a dire di registri cartacei sui quali i notai scrivevano il testo dei documenti loro richiesti dalla clientela, datati a partire dagli ultimi decenni del Trecento. Un patrimonio documentario davvero eccezionale, che solo pochi archivi comunali possono vantare.

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Bibliografia

Si offrono qui soltanto poche indicazioni bibliografiche utili a chi volesse approfondire qualcuno degli aspetti connessi con lo studio del Libro della Matricola del Collegio dei notai di Vercelli.
Intanto alcuni titoli sulla storia di Vercelli. Fondamentale è ancora oggi, a quasi centocinquant’anni dalla sua pubblicazione:

V. Mandelli, Il comune di Vercelli nel medio evo, 4 voll., Vercelli 1857-1861.

Va ricordata poi un’altra opera ottocentesca di erudizione storica relativa a Vercelli:

C. Dionisotti, Memorie storiche della città di Vercelli, 2 voll., Biella 1861-1864.

L’unico profilo complessivo di storia vercellese è costituito da:

R. Ordano, Storia di Vercelli, Vercelli 1982.

Utile è anche la consultazione di una pubblicazione periodica, curata dalla Società Storica Vercellese, dal titolo Bollettino storico vercellese. Esce dal 1972 e contiene articoli di storia vercellese e una accurata rassegna bibliografica di opere relative alla storia di Vercelli

Nella Nota sulle abitudini cronologiche dei notai vercellesi sono già stati offerti i titoli di due opere molto utili a chi volesse intraprendere lo studio di problemi connessi con le forme e la storia della documentazione medievale. Esse sono:

A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, sesta edizione aggiornata, Milano 1988,

testo utilissimo per risolvere i problemi di datazione e cronologia;

C. Paoli, Diplomatica, nuova edizione aggiornata da G. C. Bascapè, Firenze 1987 (si tratta di una ristampa dell’edizione Firenze 1942),

utile introduzione alla disciplina che studia le forme del documento medievale. A questo titolo va aggiunta una utilissima operetta introduttiva, arricchita da una ricca bibliografia:

A. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Roma  1979 e successive ristampe.

Ricordo poi che è stato di recente tradotto in italiano il monumentale (più di 1400 pagine, compresi gli indici) manuale di diplomatica scritto da Harry Bresslau tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del nostro secolo:

H. Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, traduzione di A. M. Voci-Roth, Roma 1998 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi, 10).

Indispensabile poi per chi voglia occuparsi dei prodotti scritti dell’Occidente medievale una conoscenza di base della storia della scrittura latina intesa come storia delle forme della scrittura, disciplina che prende il nome di paleografia. Una introduzione agile e aggiornata nelle tematiche e nella bibliografia è costituita da:

A. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma 1992.

Fondamentale è il trattato del grande paleografo e diplomatista italiano Giorgio Cencetti, di recente ristampato con l’aggiunta di aggiornamenti bibliografici:

G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, ristampa a cura di G. Guerrini Ferri con indici e aggiornamento bibliografico, Bologna 1997.

Non si vuole aggiungere altro, pur nella consapevolezza che questa bibliografia apparirà largamente insufficiente. L’intendimento qui era solo quello di offrire una ristretta base di partenza a chi volesse cominciare a interessarsi alla storia di Vercelli o a discipline quali la diplomatica e la paleografia. Le bibliografia comprese nelle opere citate permetteranno di procedere. Il resto va affidato alla curiosità e allo spirito di ricerca e agli strumenti offerti dalle biblioteche e dagli archivi.

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Introduzione all’edizione.

L’edizione di un testo è sempre in qualche modo una interpretazione, dato che i segni tipografici moderni non possono competere con la complessità degli usi grafici del passato. È una interpretazione, certo, a diversi gradi di complessità, e ciò dipende dagli scopi che ci si prefigge nell’edizione e dal genere del testo che si intende editare. Ci si può infatti trovare di fronte a un testo letterario inteso in senso largo (comprendendo dunque in questa categoria anche trattati di vario genere e persino manuali, ricette o altri testi pratici) oppure a un testo documentario, come nel caso presente, pensato quindi con il fine di testimoniare fatti, condizioni, rapporti che hanno rilevanza nel mondo del diritto e delle forme organizzative delle società umane. Ci si può, ancora, trovare di fronte a un testo veicolato da un pluralità di testimoni (vale a dire di riproduzioni più o meno fedeli dello stesso testo, come può essere un componimento poetico oppure un trattato politico) oppure, come nel caso presente, da un testimone unico. In tutti i casi, dal più complesso al più semplice, e il Libro delle matricole del Collegio dei notai di Vercelli è dei più semplici, l’editore si trova a dover compiere delle scelte, vale a dire a prendere, per risolvere il problema della riproduzione del testo, delle decisioni che in qualche modo si discostano da una passiva fedeltà (peraltro impraticabile).
Non si intende qui andare oltre queste generiche indicazioni. Esse vorrebbero essere solo un tentativo di suggerire la varietà e la complessità dei problemi che si presentano a chi lavori nel campo della edizione critica di testi scritti. Per il resto potrà valere come modesto esempio quello che verrà qui brevemente presentato.
Il Libro delle matricole del Collegio dei notai di Vercelli è un testo documentario (serviva, come si dirà con più completezza in altro luogo, ad attestare l’appartenenza del notaio al Collegio costituendo, insieme, uno specimen della sua scrittura autografa) caratterizzato da una redazione non compatta, vale a dire concentrata nel tempo, ma, data la sua natura, diluita lungo i tre secoli e più di vita del Collegio, con un conseguente sensibile variare di scelte redazionali, grafiche e ortografiche in dipendenza dal mutamento dei tempi e dalle abitudini del singolo scrittore.
Come rendere conto nell’edizione di tali variabili? La scelta di affiancare al testo edito la riproduzione fotografica di ogni singola pagina risolve nel modo migliore, e certamente più diretto, il problema di dare conto delle variabili grafiche (vale a dire della scrittura propria a ciascun notaio o gruppo di notai), di disposizione dei testi sulla pagina e della preparazione stessa della pagina per ricevere le sottoscrizioni dei notai. Di questo ultimo aspetto, che riguarda anche e soprattutto la delimitazione dello spazio di scrittura e la presenza o meno di riquadratura e rigatura della pagina, si parlerà anche nella parte che sarà dedicata alla descrizione materiale del manoscritto.
Per ciò che riguarda invece le scelte ortografiche degli scriventi va precisato che fino almeno al Cinquecento e oltre, fino quindi alla definitiva affermazione della stampa a caratteri mobili e oltre ancora, non era stata codificata in Europa una ortografia ufficiale delle lingue parlate e ormai da lungo tempo anche scritte (i cosidetti volgari). Per quanto riguarda il latino, lingua nella quale è scritto il libro delle matricole, sul versante letterario andava certamente meglio, grazie agli intensi studi filologici quattro- e cinquecenteschi e alla preparazione delle prime edizioni a stampa di testi classici affidatate a grandi eruditi (valga per tutti l’esempio delle edizioni uscite a Venezia dai torchi di Aldo Manuzio). Riguardo al latino dei documenti la tradizione notarile, che in Italia vantava un quasi-monopolio delle scritture documentarie, aveva fatto uso di un latino più o meno corretto, ma sempre alquanto semplificato, dal punto di vista grammaticale e sintattico. Dal punto di vista lessicale e ortografico aveva sovrapposto e mescolato una vernice volgarizzante alla lingua ereditata dalla tradizione classica. Di qui non solo l’inserimento di termini schiettamente volgari accanto a quelli latini, ma anche una volgarizzazione ortografica: la scomparsa del dittongo ae sostituito dalla semplice e, la frequente sostituzione di c a t, l’incertezza nell’uso delle consonanti doppie o scempie, per cui si trova Iohannes ma si può trovare anche Iohanes, ecc.
In una edizione destinata a un pubblico più vasto di quello costituito da soli studiosi era necessario da una parte dare conto di tali irregolarità, almeno di quelle meno frequenti, dall’altro di rendere più agevole il testo dove l’irregolarità grammaticale e ortografica avrebbe potuto impedire una immediata comprensione. Si è scelto quindi di intervenire direttamente nel testo, normalizzando le irregolarità più vistose e riportando in nota il testo nel suo dettato originale, invece di ricorrere, come si fa abitualmente nelle edizioni documentarie, a segnalazioni del tipo Così nell’originale o simili, poste in nota e intese a garantire al lettore l’assenza di errori di stampa in parole o frasi che, per la loro ‘scorrettezza’, potrebbero farlo sospettare.

Resta da precisare l’uso che si è fatto in questa edizione delle parentesi.e di altri segni diacritici. Spiegherò innanzi tutto l’uso dei tre asterischi allineati (***): essi servono a segnalare che il redattore del testo ha lasciato in quel punto uno spazio bianco. Nel testo qui edito gli spazi bianchi, abbastanza frequenti, compaiono esclusivamente in corrispondenza di elementi della data, che nelle sottoscrizioni fissa il momento in cui il notaio fa ingresso ufficiale nel Collegio. Di conseguenza tali spazi bianchi stanno in luogo di parte dell’anno, del mese o del giorno del mese e solo in qualche caso si è ritenuto opportuno segnare in nota l’estensione in centimetri dello spazio bianco.

La funzione delle parentesi quadre è quella di segnalare difficoltà o impossibilità di lettura da parte dell’editore, in presenza di parole o lettere mal leggibili perché scritte male, o perché l’inchiostro è svanito, o ancora perché la pergamena in quel punto è danneggiata. In questi casi l’editore si può comportare in due modi: lasciando tra le parentesi quadre i tre puntini sospensivi, segnalando in nota la lunghezza in centimetri della lacuna; oppure suggerendo una lettura probabile o possibile, lasciando in pari tempo al lettore la possibilità di operare ipotesi diverse (p. es.: «nota[rius public]us»).

Le parentesi tonde sono anch’esse utilizzate con una doppia funzione. Intanto servono a racchiudere l’indicazione della ricorrenza di segni speciali, quali quello distintivo del notaio (che chiamiamo, come facevano i notai di cui ci si occupa, signum tabellionis), cui ci si riferisce con la sigla ST; quello del segno di croce (che nel Liber ricorre una sola volta a c. 47 r), ridotto alla sigla SC; quello del segno manuale (anche qui si ricorre alla definizione dei notai: signum manuale), utilizzato accanto al signum tabellionis dai notai nel tardo medioevo e nell’età moderna, indicato con una semplice S.

La seconda funzione delle parentesi tonde è quella di segnalare la presenza di una abbreviazione, sciolta,  p. es. «not(arius)», o non sciolta, p. es. «P(...)», sigla che si trova più volte nella nota obituaria e sta probabilmente per l’iniziale del cognome di un funzionario del collegio che non si è potuto individuare. Le abbreviazioni sciolte con parentesi tonde sono in genere quelle per troncamento, come nei due esempi che precedono, oppure quelle per contrazione, le quali presentano la parte iniziale e finale della parola abbreviata, come nel caso dell’abbreviazione Magno, da sciogliere in Mag(lio)no (nome di un sacrista del Collegio), presente in una nota obituaria a c. 31 v.

Infine le parentesi uncinate. Nella presente edizione sono state usate solo nelle note a piè pagina relative alle annotazioni obituarie o ad altre eventuali annotazioni marginali presenti nel Liber, con lo scopo di racchiudere eventuali note a tali testi marginali che, per ovvie ragioni, non potevano trovare posto in note autonome (si sarebbero avute altrimenti note alle note). Faccio un esempio tratto da una nota obituaria a c. 8 r: «Mcccc <segue un primus cancellato con un tratto di penna> decessit».

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Scrineum
© Università di Pavia 1999