Varie
Antonio
Olivieri, Considerazioni intorno all’Handbuch der
Urkundenlehre für Deutschland und Italien di Harry Bresslau in
occasione della sua recente traduzione in italiano (©
Scrineum 1999)
Le
pagine della traduzione italiane saranno citate direttamente nel testo
tra parentesi tonda.
1.
A quasi settant’anni dall’edizione definitiva, postuma e, come si
vedrà, incompleta, viene tradotto e pubblicato per iniziativa
dell’Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti il Manuale
di diplomatica per la Germania e l’Italia di Harry Bresslau. Il
libro così tradotto è stato accolto dall’Amministrazione
archivistica italiana nella collana Sussidi delle Pubblicazioni
degli Archivi di Stato, di cui costituisce il decimo volume.
Lo scopo, dichiarato dalla promotrice del progetto di traduzione,
Giovanna Nicolaj, è quello di riattualizzare l’opera, traendola
fuori dal limbo delle citazioni rituali e degli usi troppo
circoscritti che di essa si sono fatti in Italia. Essa anzi, secondo
la studiosa, "è andata perduta nel suo complesso" per lo
strano fenomeno che affligge la diplomatica, dimentica "delle
conoscenze e dei traguardi del passato" (p. IX) proprio mentre è
intenta ad accumulare edizioni documentarie e a promuovere nuovi
ambiti di ricerca.
La traduzione – dovuta a Anna Maria Voci-Roth, già autrice di un
utile profilo di Harry Bresslau [1] – si
propone quindi di essere una riscoperta. Fenomeno tipico delle scienze
mane, la riscoperta costituisce un meccanismo peculiare del loro modo
non-lineare di progredire. Si riscoprono opere dimenticate o mal
conosciute di storici, letterati, economisti di un passato più o meno
remoto e si diviene, per esempio, muratoriani a secoli di distanza da
Muratori, o ricardiani cent’anni dopo la morte di Ricardo. Quali
sono le ragioni per essere, mi si perdoni, bresslauiani a
settant’anni dalla morte di Bresslau e a centodieci anni dalla prima
edizione della sua monumentale opera?
Alcune ne indica la stessa Nicolaj nella sua densa premessa (Ragioni
e prospettive della traduzione, pp. IX-XI): globalità,
sistematicità, coerenza, lucidità sono grandi virtù per un’opera
dell’intelletto, anche se forse messe tutte insieme diventano un
po’ingombranti (dando luogo a certe rigidità, denunciate dalla
prefatrice stessa). Ciò che più conta, tuttavia, è l’ampio quadro
di diplomatica tardoantica e italo-germanica che il gran libro offre,
che suona come un ammonimento contro nazionalismi e localismi
diplomatistici, contro, insomma, l’eccessiva frammentazione della
ricerca, offrendo l’antidoto di "un comparativismo non
superficiale" (p. IX).
2.
L'Handbuch di Harry Bresslau fu in effetti il risultato di
un’opera di sintesi globale di quanto si era pubblicato e si veniva
pubblicando sulla diplomatica dei documenti di Germania e, con le
limitazioni che si vedranno, Italia: le due premesse al primo volume,
quella alla prima edizione uscita nel 1889 e quella alla riedizione
totalmente rinnovata del 1912, offrono una informazione sintetica e
esauriente circa il metodo di confronto con le ricerche precedenti e
il loro utilizzo. Venivano citate solo le ricerche che erano servite
da vere e proprie fonti per l’esposizione e i lavori davvero utili,
evitando ogni riferimento alle opere divenute ormai inutili [anzi, in
modo più reciso, "consultando lequali si perde solo tempo"
(p. 3)], e ai lavori che costituivano il fondamento da considerarsi
scontato del lavoro del diplomatista: il De re diplomatica e il
Nouveau traité. Il carattere manualistico dell’opera non
impediva inoltre all’autore di presentare la disciplina come un
complesso di conoscenze lungi dall’aver raggiunto una definizione
stabile, sistemabile in una architettura definitiva: si impegnava così
non solo a segnalare singole divergenze tra la sua veduta e quella dei
maestri più affermati della disciplina, quali il Ficker e il Sickel,
ma anche a discutere vere e proprie divergenze riguardo al metodo. La
messa a punto della seconda e definitiva edizione del primo volume fu
ritardata dalla decisione di attendere che gli importanti lavori
avviati in Italia e in Germania tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del secolo successivo (da Bresslau stesso e da Mühlbacher,
da Kehr, da Schiaparelli, per citarne alcuni) vedessero, se non la
conclusione, almeno un soddisfacente stato di avanzamento: e ciò
nell’ansia di portare a compimento un’opera che restasse nel
tempo. Del raggiungimento di questo scopo non potrebbe darsi migliore
testimone della presente traduzione.
3.
Il Manuale è quindi una di quelle poche opere che possono
dirsi, almeno per certi versi, definitive. E' una sintesi esaustiva di
studi che avevano ormai raggiunto un notevole grado di
specializzazione. E', insieme — grazie a un tratto caratteristico
della personalità di studioso del suo autore —, un’opera
impegnata a indicare le incertezze e le prospettive di una scienza
che, con i suoi due secoli e poco più di vita, si poteva dire ben
giovane (p. 47). Anche un manuale, insomma, doveva suggerire l’idea
fondamentale "da die Wissenschaft nicht still steht", per
ripetere le sue parole in una polemica contro gli allievi di Sickel [2].
Ciò che, credo, dà la misura intera del dinamismo che caratterizzò
l’attività di studioso di Bresslau, sta nel mancato compimento del
lavoro cui resterà legata gran parte della sua fama: nel dicembre del
1911, nella prefazione alla seconda edizione del primo volume,
annunciava la prossima uscita del secondo, prevista per la primavera
del 1912. In realtà si dovette attendere sino alla fine del 1914
l’uscita non del secondo volume, ma della prima delle tre sezioni in
cui si era voluto dividerlo: la pubblicazione stessa di questa prima
parte era stata ritardata di alcuni mesi per l’incalzare degli
eventi bellici [3]. Il completamento
dell’opera veniva così rimandato al momento in cui l’Europa
avesse riconquistato la pace, all’indomani, diceva, "del
conflitto possente imposto al nostro popolo" (p. 675), dal quale
si augurava vittoria e gloria per la patria.
La storia, come sappiamo, prese vie diverse da quelle auspicate da
Bresslau. Nel dopoguerra, cacciato da Strasburgo, dove insegnava, non
potè riprendere subito il lavoro al Manuale, che non riuscì a
portare a termine. La sorte, già nel 1926, volle risparmiare a lui,
tedesco ed ebreo, di vedere la catastrofe politica e umana che si
preparava per la sua Germania, che sarebbe sprofondata nel baratro più
nero che questo secolo terribile ha visto aprirsi in Europa.
L’Handbuch, come è noto, fu portato a compimento da
Hans-Walter Klewitz, che lavorò su un manoscritto del Bresslau
composto di quattro capitoli (che oggi costituiscono i capp. XVI-XIX,
gli ultimi dell’opera), il primo già rivisto dal Bresslau e gli
ultimi due dal suo allievo Hermann Reincke-Bloch, morto nel 1929 [4].
Il materiale postumo, pubblicato nel 1931 completo dell’indice dei
documenti regi e pontifici citati, restò privo di due dei sei
capitoli che il Bresslau aveva previsto per la seconda sezione del
secondo volume (la terza essendo riservata, nei voti dell’autore,
alle aggiunte, rettifiche e indici), dei quali restavano solo scarsi
appunti.
4.
Erudizione, metodo, sistema. Sono componenti costitutive della scuola
storica tedesca in una linea continua radicata nella grande stagione
ottocentesca della storiografia romantica e nazionalista. Ma il Manuale
di Harry Bresslau ne è un prodotto tipico?
La risposta è certamente positiva. Tuttavia occorre intendersi sulla
natura dell’opera e la funzione cui fu destinata, che riflettono il
ruolo e la funzione che all’Urkundenlehre erano (e, forse,
sono tuttora) riservati nell’organizzazione tedesca degli studi
storici. Eviterò qui di riandare ai dibattiti e alle prese di
posizione sugli scopi e il ruolo della diplomatica che si ebbero nei
paesi di lingua tedesca nei primi del Novecento, nei quali pure
Bresslau ebbe parte attiva [5].
Un’analisi interna, pur parziale, del Manuale basterà da
sola agli scopi che mi propongo.
5.
I capitoli sui funzionari di cancelleria (capp. VI-VIII), con le loro
celebri liste di addetti, costituiscono in un certo senso lo specchio
di un modo di intendere l’opera di sintesi manualistica e la
diplomatica stessa. Quanto alla sintesi, appare chiaro che Bresslau
intese non solo dare un sunto completo ed esaustivo di quanto la
ricerca aveva fino al suo tempo appurato, ma anche di discutere
criticamente e puntigliosamente, in un notevole apparato di note al
testo, i singoli risultati, grazie a un confronto serrato della
letteratura diplomatistica e, soprattutto, ai propri autonomi apporti
critici e eruditi. Il risultato è davvero impressionante ed è frutto
di una ferrea pluridecennale disciplina di lavoro e di studio
difficilmente imitabile, soprattutto in un tempo di specializzazioni
quale il nostro. D’altra parte l’erudizione impeccabile,
l’appunto sul singolo documento o sul singolo funzionario di
cancelleria, il privilegiare, insomma, la precisione nella
ricostruzione della ‘cronologia’ degli uffici rispetto a una
narrazione più mirata a dare un senso e una interpretazione dei
mutamenti introdotti nella struttura degli uffici e nelle procedure di
spedizione dei documenti, mostrano una concezione peculiare della
diplomatica: si voleva in sostanza fornire un quadro diacronico
esaustivo entro il quale fosse agevole inserire il singolo pezzo,
offrendo gli strumenti per una critica diplomatistica sicura [6].
Tutto il Manuale, d’altra parte, è costruito in primo luogo
per servire aquesto scopo, per essere una sorta di pietra di paragone
per saggiare la bontà della singola serie documentaria e del singolo
pezzo, prima ancora di essere un manuale per l’apprendista o una
storia della documentazione in Italia e Germania, cose che —
intendiamoci — riesce lo stesso a essere. Ciò che non sempre gli
riesce, invece, è essere un libro da leggere distesamente, pagina per
pagina: ma chi potrebbe pensare, del resto, a farne un uso del genere?
6.
Eppure una lettura di questo tipo — anche se la struttura dell'opera
sembra progettata prevalentemente per la consultazione — non solo
riesce interessante in quanto rende familiare una mentalità e un
ambiente scientifico peculiari, ma finisce per costituire una base
sicura e ancora in gran parte attuale per lo studioso di diplomatica:
alla monumentalità del complesso corrisponde la cura per le singole
parti e la precisione per i particolari. Questo fa sì che il
"comparativismo non superficiale" cui si accennava di sopra
sia già tutto nel Manuale, perché il quadro complessivo e
penetrante che offre al lettore fornisce un metro sicuro di giudizio
per valutare singoli episodi documentari, non solo dal punto di vista
critico-diplomatistico, che si è detto costituire l’ispirazione più
autentica del libro, ma anche sotto un rispetto propriamente
storico-diplomatistico.
Si leggano per esempio, in sequenza, i capitoli VI, VII e VIII,
rispettivamente sui funzionari di cancelleria degli imperatori romani
e dei papi, sui funzionari di cancelleria degli imperatori e re
italiani, franchi e tedeschi, e, infine, su altri funzionari di
cancelleria e scrittori in Italia e Germania. Ne risulta un quadro
che, pur essendo per certi versi piuttosto invecchiato, è capace
ancora di offrire un’idea sostanzialmente esatta, nel confronto tra
le diverse situazioni, del lavorìo organizzativo attuato in Italia e
Germania dai poteri laici e dalle gerarchie sacerdotali nel campo
documentario nell’alto medioevo.
7.
Della limitazione cronologica (l’alto medioevo), cui corrisponde un
limite geografico, che si ravvisa nel Manuale, parlerò poi.
Qui basterà anticipare che essa consiste nella pressoché totale
‘dimenticanza’ nella trattazione della diplomatica del pieno e
tardo medioevo italiano comunale e signorile. Ora mi preme mettere in
rilievo come il grande lavoro di indagine sul personale e sulla
struttura delle grandi cancellerie fornisca sia elementi di confronto
tra i diversi gradi di complessità organizzativa delle grandi
cancellerie tra loro, soprattutto tra quella papale e quelle dei regni
usciti dalla frammentazione del corpo politico carolingio, sia tra
queste organizzazioni propriamente cancelleresche e le cosiddette
‘cancellerie minori’, sulle quali pure Bresslau si soffermò assai
brevemente (p. 543).
E' dunque vero che l’atteggiamento scientifico del Bresslau autore
del Manuale era improntato alla assoluta oggettività di chi
espone ordinatamente i dati rinunziando a trarre un senso generale,
‘storico’, dall’osservazione dei mutamenti ricostruiti con
impeccabile rigore filologico. Si veda il capitolo VI e in esso la
celebre e ampia parte dedicata ai funzionari di cancelleria papali:
nulla vi si trova che vada nella direzione di uno sforzo di sintesi
che desse un’idea delle tensioni e delle forze storiche che
condussero all’organizzazione dell’imponente apparato burocratico
costituito dagli uffici di documentazione papale, sì invece ad
accuratissime discussioni su singole questioni e al confronto serrato
con le opere più importanti sino allora edite – quali Scrinium
und Palatium di Paul Fridolin Kehr e Die päpstlichen
Kanzleiordnungen von 1200-1500 di Michael Tangl, per fare
l’esempio di due tra le più citate [7]
–, ma sempre in relazione alla ricostruzione di singole vicende di
maggiore o minore rilievo.
8.
Eppure proprio l’accumulo e l’ordinamento dei dati e il
susseguirsi delle singole trattazioni, concepite con tanto scrupolo di
completezza e rigore, offrivano un criterio sicuro di giudizio nel
confronto con situazioni almeno tendenzialmente analoghe: per esempio
gli uffici di documentazione di vescovi e abati nei paesi germanofoni
(p. 543 sgg.), che Bresslau definì senz’altro "cancellerie
ecclesiastiche" (p. 543) e trattò limitandosi alle sole
arcidiocesi – Magonza, Treviri, Colonia, Salisburgo, Brema-Amburgo,
Magdeburgo. I vescovi di Magonza non disposero nei secoli X e XI di
una cancelleria ben ordinata né di un personale numeroso addetto a
essa. Anche nel caso degli arcivescovi di Treviri e Colonia la
situazione degli organi di documentazione sembra analoga, ma è grazie
alla ben documentata situazione di Salisburgo che si evince con
chiarezza "quanto scarso fosse nel complesso il personale
burocratico con il quale unodei più prestigiosi arcivescovi tedeschi
doveva riuscire a cavarsela nei secoli XII e XIII" (p. 547). Lo
stesso vale, senza dubbio, per gli arcivescovi di Brema-Amburgo e per
quello di Magdeburgo, almeno prima del XIII secolo (pp.547-49). E il
discorso si potrebbe agevolmente estendere ai principi laici tedeschi,
per i quali i segni di una incipiente burocratizzazione della funzione
di produzione documentaria si iniziano a cogliere solo a partire dal
XIII secolo (pp. 550-553).
9.
Insomma, verrebbe da concludere, l’uso del vocabolo 'cancelleria'
per riferirsi a questi asfittici uffici di documentazione non sembra
consono, almeno da un punto di vista organizzativo, e il confronto con
le grandi cancellerie lo fa risaltare con chiarezza. A questo punto
però — dopo avere suggerito le possibilità di analisi comparativa
che il Manuale offre, nonostante la sua ostentata rinunzia a
interpretare i dati — va affrontato un altro dei problemi che
l'opera pone. Esso si manifesta questa volta proprio grazie a una
netta presa di posizione di Bresslau, del genere di quelle di cui si
è appena rilevata la carenza, relativa proprio al problema delle
cancellerie minori.
La dichiarazione di inadeguatezza di un uso del termine 'cancelleria'
nel trattare delle organizzazioni documentarie di certi vescovi, che
in anni recenti ha costituito una delle scelte di base di importanti
ricerche di diplomatica vescovile, fu scrupolosamente evitata da
Bresslau, perché con essa si rischiava di introdurre, come in effetti
accadde allora, distinzioni di carattere dottrinario. Lo chiarì in
una lunga nota di commento alle opinioni allora espresse da H.
Steinacker [8] (nota 110 alle pp. 554-55).
Quest’ultimo, in sintesi, postulava una netta distinzione in
Germania tra il notariato dei principi e la cancelleria dei sovrani e
le loro rispettive attività documentarie, laddove Bresslau vedeva
invece una differenza essenzialmente quantitativa e una sostanziale
omogeneità tra le due categorie di scrittori di documenti. D’altra
parte va ricordato che Bresslau non aveva mai utilizzato in quelle
stesse pagine i concetti sia di documento pubblico sia di documento
privato (si vedano,invece, p. 590 sgg. e p. 630 sgg.).
10.
Reagiva, in questo modo, alla pericolosa deriva che la diplomatica
rischiava di imboccare, quella di costringere la complessa e
multiforme realtà documentaria medievale entro categorie
precostituite, imponendo, per esempio, al mondo tedesco una concezione
del notariato quale di fatto si poteva riscontrare, almeno per i
secoli centrali del medioevo, soltanto nella penisola italiana. Non
contrastare questa tendenza avrebbe significato dare il via libera
all’allontanamento della diplomatica dal metodo storico elaborato
nel corso della grande stagione ottocentesca della storiografia
tedesca, metodo cui Bresslau aveva legato indissolubilmente tutta la
sua attività scientifica e di cui proprio nel Manuale aveva
offerto un impeccabile esempio [9].
Andrebbe qui aggiunto che la linea interpretativa relativa alle
‘cancellerie minori’ cui ora si accennava, se vista nel contesto
del Manuale o, con maggiore precisione, di quelle sue parti
dedicate ai documenti dei principi ecclesiastici e laici (si vedano,
per es., le pagine dedicate alla ‘Sigillatura di documenti non
regi’, come recita il titolo corrente, p. 630 sgg.), denuncia che
per certi riguardi il pensiero del Bresslau non era giunto a una
sintesi unitaria. In relazione al problema della distinzione tra
documento pubblico e documento privato è possibile infatti, a mio
parere, riscontrare nella trattazione di Bresslau dei punti di
tensione, quasi delle incrinature. La questione pubblico/privato si
rivelava così come uno dei punti ‘sensibili’ della Urkundenlehre,
suscettibile almeno potenzialmente di sviluppi divergenti rispetto
alla teoria dominante di H. Steinacker e O. Redlich [10].
Non mi sembra opportuno qui andare oltre questo semplice accenno.
Vorrei solo aggiungere che l’incertezza o, se si vuole, la latente
contraddizione rilevata non costituisce certo un elemento ‘a
carico’ del Manuale, ma anzi un ulteriore segno del dinamismo
cui si accennava all’inizio di questo scritto. Con le critiche
rivolte alla posizione di Steinacker si introducevano spunti in
direzione di una migliore comprensione delle vicende della produzione
documentaria presso principi ecclesiastici e laici, signori
territoriali e città, tra le quali, non ultimi, i comuni italiani.
11.
Proprio dell’Italia resta da parlare e per farlo vorrei continuare a
occuparmi del cap. VIII. E' proprio dall’analisi della parte che in
esso è dedicata all’Italia che emerge con chiarezza quanto prima
dicevo circa il limite cronologico e geografico-istituzionale di cui
soffre il Manuale. All’Italia ‘non cancelleresca’, vale a
dire all’Italia ‘diplomatica’ al di fuori dalla cancelleria
papale e delle cancellerie dei regni meridionali, è dedicata una
trattazione soddisfacente solo per l’alto medioevo.
Mi sembra opportuno rendere esplicito a che cosa corrisponda il
giudizio di soddisfazione appena espresso. Lo farò soffermandomi
sulle pagine iniziali del cap. VIII, che costituiscono, a mio parere,
una delle parti meglio riuscite del libro. Esse concentrano in una
trattazione agile e sintetica le principali caratteristiche che
contribuiscono a fare del Manuale un capolavoro: informazione
completa sulle fonti secondarie del lavoro storiografico — solo
quelle, si capisce, veramente utili —, ricorso critico e autonomo
alle fonti primarie e conseguente serrata discussione dei risultati
delle migliori, o solo più celebri, ricerche. Si prendano in esame le
pagine sugli scrittori professionisti di documenti nell’Italia
altomedievale non occupata dai longobardi. Già la definizione —
Italia non occupata dai longobardi e non Italia romano-bizantina [11]
— denuncia un rifiuto metodico degli schemi preconfezionati, rifiuto
che non si risolve in una rinuncia, bensì nella volontà di giungere,
mediante una serrata critica dei documenti, a risultati autonomi e,
entro i limiti imposti dalle fonti, sicuri. In queste pagine il
bersaglio polemico è la Italienische Verfassungsgeschichte di
Ernst Mayer, in due volumi, uscita a Lipsia nel 1909. Nei brevi
capoversi in cui Bresslau tratta dei curiales napoletani e
degli scrittori di documenti del ducato di Gaeta (pp. 536-37) commenta
seccamente in nota l’infondatezza di certe ipotesi del Mayer (p.
537, nota 24) e la frettolosa superficialità della sua lettura dei
documenti, che lo inducono talvolta a conclusioni del tutto erronee
(p. 537, nota 25). Di questo Mayer, insomma, c’era poco da fidarsi:
non solo aveva proceduto assai alla buona nella lettura delle fonti,
ma aveva anche, a proposito dei notai del territorio longobardo,
creduto indebitamente di poter trarre conclusioni sul periodo
longobardo sulla base di documentazione posteriore, relativa al
notariato italiano in epoca carolingia, che Bresslau riteneva, e qui
non possiamo essere pienamente d’accordo con lui, modellato dalla
legislazione franca (p. 540 sg.; si veda anche nota 157, p. 565).
12.
Insomma: limpidezza del discorso e serrata argomentazione, come
esempio di una abitudine critica di apertura al confronto e anche alle
asprezze della polemica, in un quadro diserietà e rigore che, per
esempio, sembravano difettare anche in un’opera importante come
quella di Mayer. Importa poi osservare che sui temi classici della
diplomatica del documento notarile italiano — quali il valore del
documento in giudizio, l’evoluzione verso l’instrumentum
publicum, l’acquisizione da parte del notaio della fides
publica (si veda, per esempio, p. 590 sgg.), il valore giuridico
della minuta, ecc. — Bresslau si esprimeva in modo ancor oggi in
gran parte attuale. Questa, se ce ne fosse bisogno, è una conferma di
quanto la diplomatica del documento notarile, almeno nei suoi aspetti
più tradizionali, debba alla ricerca diplomatistica tedesca.
Certo, anche in un’opera attenta e rigorosa come quella di Harry
Bresslau erano inevitabili alcune genericità. Va, d’altra parte,
ricordato, anche se ai lettori apparirà scontato, che nelle parti
dedicate al notariato italiano Bresslau scontava la grave arretratezza
della storiografia italiana. Gli studi di cui si serviva erano
costituiti essenzialmente dai lavori di Ficker, di Handloike [12],
dal vecchio lavoro di F. Oesterley sul notariato tedesco [13].
Poteva così lasciarsi andare ad affermazioni talvolta troppo recise,
come quella secondo la quale "già dal XIII secolo [in Italia] i
notai di una città appartenevano tutti a collegi organizzati
corporativamente e soggetti alla sorveglianza delle autorità
comunali" (p. 576). Di un fenomeno, pure tipicamente italiano,
quale quello delle società cittadine dei notai, si faceva un istituto
di generale diffusione nella penisola, appiattendo in una indistinta
omogeneità una realtà che sappiamo essere molto differenziata.
13.
Ma i problemi della parte italiana tutto sommato non stanno in queste
innocenti generalizzazioni. Se torniamo alla questione delle
"cancellerie dei principi ecclesiastici e laici" su cui ci
si era soffermati prima, va ricordato che Bresslau, impegnato nella
polemica interna alla diplomatica di lingua tedesca, aveva
condotto, fin dove le edizioni documentarie esistenti glielo avevano
permesso e talvolta ricorrendo addirittura agli originali, una analisi
non superficiale del dettato dei documenti. Il discorso si limitava
però rigorosamente ai territori di lingua tedesca, non accennando
neppure alle ‘cancellerie minori’ del territorio italiano. Anche
quando passava dalle cancellerie dei principi a un breve excursus
sugli "scrittori delle città" ("städtisches
Schreiberpersonal") tardomedievali (pp. 563-64) nessuno spazio
veniva riservato al personale impegnato in quest’ambito nei comuni
italiani [14].
In questo il Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia riserva
al lettore italiano più di una delusione. Come spiegare una così
notevole lacuna?
14.
In realtà un accenno agli uffici di documentazione dei comuni
italiani sta nelle pagine che nel medesimo cap. VIII vengono dedicate
al notariato italiano (p. 564 sgg.), basate essenzialmente sulle Forschungen
zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens di Julius Ficker (4
voll., Innsbruck 1868-74). Tale accenno è confinato in una nota e
nella sua posteriore integrazione, riunite nell’edizione italiana
alle pp. 571-72, nota 188. Nella nota si accennava al fatto che quei
notai di consoli cittadini, di podestà ecc., che si iniziano a
trovare nei documenti italiani a partire dal XII secolo, erano con
ogni probabilità "funzionari delle cancellerie cittadine presi
dal numero dei notai palatini pubblici, come risulta chiaramente dai
posteriori statuti", aggiungendo che notai pubblici erano anche
in gran parte "i notai e cancellieri dei funzionari imperiali
italiani" e quelli dei primi signori trecenteschi, "finché
a poco a poco le cancellerie dei signori regionali si organizzarono
stabilmente". Lo studio di queste cancellerie veniva però
lasciato ai colleghi italiani.
Questi ultimi nel frattempo avevano iniziato a occuparsi del problema.
L’opera di Demetrio Marzi su La cancelleria della repubblica
fiorentina è del 1910 (Rocca S.Casciano), la prima parte degli Studi
e ricerche di diplomatica comunale di PietroTorelli del 1911.
Bresslau faceva in tempo a darne notizia in una breve nota nei Nachträge
und Verbesserungen [15], nella
quale elencava le città delle quali Torelli, nel suo lavoro
"diligente e accurato", aveva raccolto le più antiche
attestazioni "sui funzionari di cancelleria" e si dichiarava
d’accordo con lui – contro le affermazioni di Ficker, cui aveva in
un primo tempo aderito (cfr. p. 574) – su una singola questione
relativa ai notai romagnoli. Infine citava "l’eccellente lavoro
specialistico sui funzionari della cancelleria fiorentina" di
Marzi, rimandando alla notizia che ne aveva scritto per il "Neues
Archiv" del 1912, il cui primo fascicolo era uscito nel 1911 [16].
In realtà, come è noto, Torelli era stato assai critico verso
l’uso del termine ‘cancelleria’ negli studi di diplomatica
comunale, per ragioni legate alla natura stessadella produzione
documentaria comunale, affidata a una pluralità di uffici non
riducibili a unità se non in astratto; e aveva concluso, con spirito
analogo a quello cui Bresslau si era mostrato fedele in più luoghi
del Manuale, come fosse necessario seguire "passo passo i
documenti non per cercare se nel comune si trovino istituti di una
determinata natura, ma per determinare la natura degli istituti che vi
sitrovano" [17]. In questo la
critica al lavoro di Marzi, cui pure Torelli riconosceva grandi
meriti, era esplicita. Bresslau invece con la ripresa del termine in
quella nota del Manuale e con le lodi incondizionate a Marzi
nella notizia uscita sul "NeuesArchiv" aveva scelto una
linea di coerenza con quanto aveva affermato a proposito delle
‘cancellerie’ dei principi tedeschi. In ogni caso le due opere
erano uscite troppo tardi [18] perché
nel primo volume della rinnovata edizione del Manuale se ne
trovasse più che un pallido riflesso. Eppure si resta con
l’impressione che Bresslau abbia trascurato un tema fondamentale per
la diplomatica italiana, che, del resto, non si poteva dire fosse una
scoperta originale di Marzi e Torelli [19].
15.
Il mio intervento — e così concludo, pur in modo provvisorio —
costituisce un tentativo di rispondere all’invito implicito di
Giovanna Nicolaj di ‘rimettere in circolo’ il Manuale di
Harry Bresslau. In questo senso la sua traduzione italiana, nel
complesso a mio parere davvero ottima [20],
compie il primo e decisivo passo in questa direzione. Il punto di
vista che ho assunto è quello della storia della disciplina, ambito
che negli ultimi anni ha destato in Italia rinnovati interessi [21].
Particolarmente promettente mi è sembrato, in questo primo sondaggio,
lo studio dei rapporti e delle influenze tra ricercatori di lingua
tedesca e ricercatori italiani tra Ottocento e primi del Novecento.
E’ auspicabile che in futuro cresca l’interesse per questi temi,
il cui approfondimento potrebbe essere utile anche ad acquisire
maggiore consapevolezza della specificità degli sviluppi della nostra
disciplina in Italia nel confronto con le altre nazioni europee. Una
base per riflettere sulle scelte future.
[1]
A. M. Voci, Harry Bresslau, l’ultimo allievo di Ranke, in
"Bullettino dell’IstitutoStorico Italiano", 100
(1995-1996), pp. 235-281, con una appendice di lettere di e a Harry
Bresslau alle pp. 282-295. Su Harry Bresslau cfr. anche H. Fuhrmann, "Sind
eben alles Menschen gewesen". Gelehrtenleben im 19. und 20.
Jahrhundert, München 1996, pp. 104-108.
[2]
Voci, Harry Bresslau cit., p. 264.
[3]
Questa edizione, datata 1912-1915 e stampata a Leipzig dal Verlag von
Veit & Comp., priva di indici analitici, è definitiva per quanto
riguarda i capitoli I-XV, vale a dire il primo volume (costituito da 9
capitoli) e i primi 6 capitoli del secondo.
[4]
Klewitz nella sua Premessa alla seconda parte del secondo volume (pp.
677-78) non fa precisazioni riguardo al secondo di questi quattro
capitoli ("Le materie scrittorie", pp. 1093-1123): si deve
ritenere che l’opera di revisione sia dovuta a lui stesso. Egli
afferma del resto di aver utilizzato appunti.
[5]
Voci, Harry Bresslau cit., p. 263-264.
[6]
Altri ottimi esempi di questa concezione si hanno nel capitolo XVI
("Ladatazione dei documenti"). Si leggano, p. es., le pagine
in cui si discute delle cause degli errori nella data cronica in
documenti genuini: a p. 1061 Bresslau afferma che "anche un
errore nella data può addirittura assurgere a criterio della genuinità",
dato che quando accade che tali errori nei documenti di una
cancelleria si presentano in serie, un errore presente in un documento
inseribile in una tale serie può servire come argomento in favore, se
non della sua genuinità, almeno dell’uso da parte del suo redattore
di un modello genuino. Le citazioni di passaggi che fanno del Manuale
un prontuario di critica diplomatistica si potrebbero facilmente
moltiplicare.
[7]
Rispettivamente edite in "Mitteilungen des Instituts fur Österreichische
Geschichtsforschung", Erg. 6 (1901), pp. 70-112 e, come volume
singolo, Innsbruck 1894.
[8]
In particolare in H. Steinacker, Die Lehre von den nicht königlichen
(Privat-) Urkunden vornehmlich des deutschen Mittelalter, in Grundriss
der Geschichtwissenschaft zur Einführung in das Studium der deutschen
Geschichte des Mittelalters und der Neuzeit, a cura di A. Meister,
1, Leipzig1906-19071; ma si veda anche una recensione dello stesso in
"Mitteilungen des Instituts fur Österreichische
Geschichtsforschung", 29 (1908), pp. 347-354.
[9]
Si vedano le frequenti annotazioni metodologiche: per esempio p. 97 n.
64, p. 291 n. 720, p. 301, pp. 373-374, p. 545 n. 70, p. 589 n. 46, p.
632 ecc.
[10]
La tensione cui si accenna consiste, in estrema sintesi, nel proporre
da un lato la dottrina tradizionale della distinzione documento
pubblico/documento privato – per cui sarebbero documenti pubblici
quelli emessi "da sovrani indipendenti o semiindipendenti" e
privati tutti gli altri (p. 11) –, aggiungendo d’altro lato che
però nel tardo medioevo anche i documenti di principi, signori
territoriali e città "posseggono un carattere pubblico" (p.
11 e cfr. n. 110 pp. 554-555 e p. 630 sgg.). Ora non risulta ben
chiaro quali siano gli elementi che nel tardo medievo si introducono
nei documenti in questione e contribuiscono a farne documenti di
carattere pubblico: a p. 630 si dice che l’introduzione del sigillo
come mezzo di convalida nei documenti dei "grandi ecclesiastici e
laici dell’impero" avrebbe provocato "un accostamento
formale dei documenti privati a quelli regi", anche se le
differenze tra le due classi non sarebbero scomparse del tutto, ma
sarebbero andate sempre più sfumando. In ogni modo, aggiunge subito
Bresslau, "il documento dei principi del tardo Medioevo nei suoi
tratti essenziali si distingue appena dal documento regio":
ragione principale di ciò sta nel fatto che il documento principesco
ha "ormai la medesima rilevanza giuridica". Il problema,
evidentemente, sta proprio qui: la distinzione documento
pubblico/documento privato è una distinzione di ordine giuridico, non
diplomatistico. Lo stesso Bresslau non aveva mancato di rilevare, in
un passaggio, che la diplomatica non aveva gli stessi compiti e i
medesimi scopi di una scienza storica del diritto (p. 580). Eppure non
aveva potuto evitare di mescolare criteri di analisi di tipo
diplomatistico, che stanno alla base della polemica contro Steinacker,
con criteri di tipo giuridico, che lo portavano, p. es., a convenire
con Redlich su una presunta riacquisizione da parte del documento
privato – grazie, occorre ritenere, alla sua sigillatura – del
valore negoziale dispositivo (p. 630, n. 216 e testo corrispondente).
[11]
La definizione di Italia non occupata dai longobardi è già
nell’opera di E. Mayer citata subito oltre nel testo. Va poi
aggiunto che Bresslau utilizza successivamente, p. es. a p. 601,
espressioni, come "territorio lombardo-tosco", mutuate
chiaramente dagli storici del diritto.
[12]
M. Handloike, Die lombardischen Städte unter der Herrschaft der
Bischöfe und die Entstehung der Communen, Berlin 1883.
[13]
F. Oesterley, Das deutsche Notariat, 2 voll., Hannover 1842.
[14]
Anche nel capitolo dedicato agli archivi (cap. V, pp.137-167), nel
brevissimo spazio riservato agli archivi delle città (pp. 166-167)
non si accennava neppure agli archivi dei comuni italiani, né, per
fare un altro esempio, nel cap. IV ("Tradizione e riproduzione
dei documenti", pp. 83-136) – che pure tratta di cartulari, libri
traditionum, narrazioni storiche con documenti e, soprattutto, di
registri di cancelleria, giungendo sino ad accennare ai registri delle
città tedesche (n. 222 p. 134 e testo corrisp.) – si accenna
minimamente a una consimile, e sappiamo quanto fiorente, produzione
documentaria delle città italiane.
[15]
Tali integrazioni, che prima si è detto essere nell’edizione
italiana riunite alle relative note al testo, erano poste in appendice
al I vol. dell’Handbuch pubblicato nel 1912 (pp. 739-46) e
non dovrebbero essere posteriori alla Premessa dell’autore, datata
Strasburgo, 1° dicembre 1911.
[16]
"Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche
Geschichtskunde", 37 (1912), p. 358 sg. La nota si apre con un
caldo riconoscimento del valore dell’opera ["Eine Frucht lanöhriger,
sehr gründlicher und dankenswerter Studien ist das umfangreiche Werk
von Demetrio Marzi (...)"] e continua con una breve ma accurata
descrizione del contenuto del libro, concludendo che esso "die
Literatur der Geschichte von Florenz und der italienischen Diplomatik
in erfreulicher Weise bereicherthat".
[17]
P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, in
"Atti e memoriedella R. Accademia Virgiliana di Mantova", IV
(1911), pp. 7-11 (la frase citata è a p. 11). Ho utilizzato la
ristampa anastatica a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Roma
1980 (Studi storici sul notariato italiano,V).
[18]
Le pagine introduttive al volume di Marzi erano state però anticipate
nella "Rivista delle Biblioteche e degli Archivi", XIX
(1908), pp.33-42.
[19]
Si veda, p. es., M. A. von Bethmann-Hollweg, Der
germanisch-romanische Civilprozess im Mittelalter, vol. III, Bonn
1874, p. 159 sgg., molte considerazioni del quale sono passate in F.
Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati, Torino 1888, pp.
68e segg., p. es. p. 76, n. 1; o le pagine che H.-U. Kantorowicz, Albertus
Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, 2 voll., Berlin 1907
ha dedicato ai notai officiali del comune di Bologna.
[20]
Ho tralasciato qui di segnalare le scelte linguistiche e redazionali
esplicite (cfr. pp. X-XI, XV-XVI) o implicite dato che il mio
intervento non intendeva essere una recensione della traduzione
italiana.
[21]
Ricordo qui i contributi dovuti a S. P. P. Scalfati, dei quali citerò
soltanto Cipolla, Schiaparelli e la scienza del documento, in Carlo
Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento, Atti del
convegno di Studio (Verona, 23-24 novembre 1991), a cura di G. M.
Varanini, Verona 1994, pp. 145-163; e A. Pratesi, Un secolo di
diplomatica in Italia, in Cent’anni di paleografia e
diplomatica (1887-1986), a cura di A.Petrucci e A. Pratesi, Roma
1988, pp. 81-97.
Antonio
Olivieri
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