Scrineum Biblioteca



 

 

 

 

 

Varie

Antonio Olivieri, Considerazioni intorno all’Handbuch der Urkundenlehre für Deutschland und Italien di Harry Bresslau in occasione della sua recente traduzione in italiano (© Scrineum 1999)

Le pagine della traduzione italiane saranno citate direttamente nel testo tra parentesi tonda.

1. A quasi settant’anni dall’edizione definitiva, postuma e, come si vedrà, incompleta, viene tradotto e pubblicato per iniziativa dell’Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti il Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia di Harry Bresslau. Il libro così tradotto è stato accolto dall’Amministrazione archivistica italiana nella collana Sussidi delle Pubblicazioni degli Archivi di Stato, di cui costituisce il decimo volume.
Lo scopo, dichiarato dalla promotrice del progetto di traduzione, Giovanna Nicolaj, è quello di riattualizzare l’opera, traendola fuori dal limbo delle citazioni rituali e degli usi troppo circoscritti che di essa si sono fatti in Italia. Essa anzi, secondo la studiosa, "è andata perduta nel suo complesso" per lo strano fenomeno che affligge la diplomatica, dimentica "delle conoscenze e dei traguardi del passato" (p. IX) proprio mentre è intenta ad accumulare edizioni documentarie e a promuovere nuovi ambiti di ricerca.
La traduzione – dovuta a Anna Maria Voci-Roth, già autrice di un utile profilo di Harry Bresslau [1] – si propone quindi di essere una riscoperta. Fenomeno tipico delle scienze mane, la riscoperta costituisce un meccanismo peculiare del loro modo non-lineare di progredire. Si riscoprono opere dimenticate o mal conosciute di storici, letterati, economisti di un passato più o meno remoto e si diviene, per esempio, muratoriani a secoli di distanza da Muratori, o ricardiani cent’anni dopo la morte di Ricardo. Quali sono le ragioni per essere, mi si perdoni, bresslauiani a settant’anni dalla morte di Bresslau e a centodieci anni dalla prima edizione della sua monumentale opera?
Alcune ne indica la stessa Nicolaj nella sua densa premessa (Ragioni e prospettive della traduzione, pp. IX-XI): globalità, sistematicità, coerenza, lucidità sono grandi virtù per un’opera dell’intelletto, anche se forse messe tutte insieme diventano un po’ingombranti (dando luogo a certe rigidità, denunciate dalla prefatrice stessa). Ciò che più conta, tuttavia, è l’ampio quadro di diplomatica tardoantica e italo-germanica che il gran libro offre, che suona come un ammonimento contro nazionalismi e localismi diplomatistici, contro, insomma, l’eccessiva frammentazione della ricerca, offrendo l’antidoto di "un comparativismo non superficiale" (p. IX).

2. L'Handbuch di Harry Bresslau fu in effetti il risultato di un’opera di sintesi globale di quanto si era pubblicato e si veniva pubblicando sulla diplomatica dei documenti di Germania e, con le limitazioni che si vedranno, Italia: le due premesse al primo volume, quella alla prima edizione uscita nel 1889 e quella alla riedizione totalmente rinnovata del 1912, offrono una informazione sintetica e esauriente circa il metodo di confronto con le ricerche precedenti e il loro utilizzo. Venivano citate solo le ricerche che erano servite da vere e proprie fonti per l’esposizione e i lavori davvero utili, evitando ogni riferimento alle opere divenute ormai inutili [anzi, in modo più reciso, "consultando lequali si perde solo tempo" (p. 3)], e ai lavori che costituivano il fondamento da considerarsi scontato del lavoro del diplomatista: il De re diplomatica e il Nouveau traité. Il carattere manualistico dell’opera non impediva inoltre all’autore di presentare la disciplina come un complesso di conoscenze lungi dall’aver raggiunto una definizione stabile, sistemabile in una architettura definitiva: si impegnava così non solo a segnalare singole divergenze tra la sua veduta e quella dei maestri più affermati della disciplina, quali il Ficker e il Sickel, ma anche a discutere vere e proprie divergenze riguardo al metodo. La messa a punto della seconda e definitiva edizione del primo volume fu ritardata dalla decisione di attendere che gli importanti lavori avviati in Italia e in Germania tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo (da Bresslau stesso e da Mühlbacher, da Kehr, da Schiaparelli, per citarne alcuni) vedessero, se non la conclusione, almeno un soddisfacente stato di avanzamento: e ciò nell’ansia di portare a compimento un’opera che restasse nel tempo. Del raggiungimento di questo scopo non potrebbe darsi migliore testimone della presente traduzione.

3. Il Manuale è quindi una di quelle poche opere che possono dirsi, almeno per certi versi, definitive. E' una sintesi esaustiva di studi che avevano ormai raggiunto un notevole grado di specializzazione. E', insieme — grazie a un tratto caratteristico della personalità di studioso del suo autore —, un’opera impegnata a indicare le incertezze e le prospettive di una scienza che, con i suoi due secoli e poco più di vita, si poteva dire ben giovane (p. 47). Anche un manuale, insomma, doveva suggerire l’idea fondamentale "da die Wissenschaft nicht still steht", per ripetere le sue parole in una polemica contro gli allievi di Sickel [2].
Ciò che, credo, dà la misura intera del dinamismo che caratterizzò l’attività di studioso di Bresslau, sta nel mancato compimento del lavoro cui resterà legata gran parte della sua fama: nel dicembre del 1911, nella prefazione alla seconda edizione del primo volume, annunciava la prossima uscita del secondo, prevista per la primavera del 1912. In realtà si dovette attendere sino alla fine del 1914 l’uscita non del secondo volume, ma della prima delle tre sezioni in cui si era voluto dividerlo: la pubblicazione stessa di questa prima parte era stata ritardata di alcuni mesi per l’incalzare degli eventi bellici [3]. Il completamento dell’opera veniva così rimandato al momento in cui l’Europa avesse riconquistato la pace, all’indomani, diceva, "del conflitto possente imposto al nostro popolo" (p. 675), dal quale si augurava vittoria e gloria per la patria.
La storia, come sappiamo, prese vie diverse da quelle auspicate da Bresslau. Nel dopoguerra, cacciato da Strasburgo, dove insegnava, non potè riprendere subito il lavoro al Manuale, che non riuscì a portare a termine. La sorte, già nel 1926, volle risparmiare a lui, tedesco ed ebreo, di vedere la catastrofe politica e umana che si preparava per la sua Germania, che sarebbe sprofondata nel baratro più nero che questo secolo terribile ha visto aprirsi in Europa.
L’Handbuch, come è noto, fu portato a compimento da Hans-Walter Klewitz, che lavorò su un manoscritto del Bresslau composto di quattro capitoli (che oggi costituiscono i capp. XVI-XIX, gli ultimi dell’opera), il primo già rivisto dal Bresslau e gli ultimi due dal suo allievo Hermann Reincke-Bloch, morto nel 1929 [4]. Il materiale postumo, pubblicato nel 1931 completo dell’indice dei documenti regi e pontifici citati, restò privo di due dei sei capitoli che il Bresslau aveva previsto per la seconda sezione del secondo volume (la terza essendo riservata, nei voti dell’autore, alle aggiunte, rettifiche e indici), dei quali restavano solo scarsi appunti.

4. Erudizione, metodo, sistema. Sono componenti costitutive della scuola storica tedesca in una linea continua radicata nella grande stagione ottocentesca della storiografia romantica e nazionalista. Ma il Manuale di Harry Bresslau ne è un prodotto tipico?
La risposta è certamente positiva. Tuttavia occorre intendersi sulla natura dell’opera e la funzione cui fu destinata, che riflettono il ruolo e la funzione che all’Urkundenlehre erano (e, forse, sono tuttora) riservati nell’organizzazione tedesca degli studi storici. Eviterò qui di riandare ai dibattiti e alle prese di posizione sugli scopi e il ruolo della diplomatica che si ebbero nei paesi di lingua tedesca nei primi del Novecento, nei quali pure Bresslau ebbe parte attiva [5]. Un’analisi interna, pur parziale, del Manuale basterà da sola agli scopi che mi propongo.

5. I capitoli sui funzionari di cancelleria (capp. VI-VIII), con le loro celebri liste di addetti, costituiscono in un certo senso lo specchio di un modo di intendere l’opera di sintesi manualistica e la diplomatica stessa. Quanto alla sintesi, appare chiaro che Bresslau intese non solo dare un sunto completo ed esaustivo di quanto la ricerca aveva fino al suo tempo appurato, ma anche di discutere criticamente e puntigliosamente, in un notevole apparato di note al testo, i singoli risultati, grazie a un confronto serrato della letteratura diplomatistica e, soprattutto, ai propri autonomi apporti critici e eruditi. Il risultato è davvero impressionante ed è frutto di una ferrea pluridecennale disciplina di lavoro e di studio difficilmente imitabile, soprattutto in un tempo di specializzazioni quale il nostro. D’altra parte l’erudizione impeccabile, l’appunto sul singolo documento o sul singolo funzionario di cancelleria, il privilegiare, insomma, la precisione nella ricostruzione della ‘cronologia’ degli uffici rispetto a una narrazione più mirata a dare un senso e una interpretazione dei mutamenti introdotti nella struttura degli uffici e nelle procedure di spedizione dei documenti, mostrano una concezione peculiare della diplomatica: si voleva in sostanza fornire un quadro diacronico esaustivo entro il quale fosse agevole inserire il singolo pezzo, offrendo gli strumenti per una critica diplomatistica sicura [6]. Tutto il Manuale, d’altra parte, è costruito in primo luogo per servire aquesto scopo, per essere una sorta di pietra di paragone per saggiare la bontà della singola serie documentaria e del singolo pezzo, prima ancora di essere un manuale per l’apprendista o una storia della documentazione in Italia e Germania, cose che — intendiamoci — riesce lo stesso a essere. Ciò che non sempre gli riesce, invece, è essere un libro da leggere distesamente, pagina per pagina: ma chi potrebbe pensare, del resto, a farne un uso del genere?

6. Eppure una lettura di questo tipo — anche se la struttura dell'opera sembra progettata prevalentemente per la consultazione — non solo riesce interessante in quanto rende familiare una mentalità e un ambiente scientifico peculiari, ma finisce per costituire una base sicura e ancora in gran parte attuale per lo studioso di diplomatica: alla monumentalità del complesso corrisponde la cura per le singole parti e la precisione per i particolari. Questo fa sì che il "comparativismo non superficiale" cui si accennava di sopra sia già tutto nel Manuale, perché il quadro complessivo e penetrante che offre al lettore fornisce un metro sicuro di giudizio per valutare singoli episodi documentari, non solo dal punto di vista critico-diplomatistico, che si è detto costituire l’ispirazione più autentica del libro, ma anche sotto un rispetto propriamente storico-diplomatistico.
Si leggano per esempio, in sequenza, i capitoli VI, VII e VIII, rispettivamente sui funzionari di cancelleria degli imperatori romani e dei papi, sui funzionari di cancelleria degli imperatori e re italiani, franchi e tedeschi, e, infine, su altri funzionari di cancelleria e scrittori in Italia e Germania. Ne risulta un quadro che, pur essendo per certi versi piuttosto invecchiato, è capace ancora di offrire un’idea sostanzialmente esatta, nel confronto tra le diverse situazioni, del lavorìo organizzativo attuato in Italia e Germania dai poteri laici e dalle gerarchie sacerdotali nel campo documentario nell’alto medioevo.

7. Della limitazione cronologica (l’alto medioevo), cui corrisponde un limite geografico, che si ravvisa nel Manuale, parlerò poi. Qui basterà anticipare che essa consiste nella pressoché totale ‘dimenticanza’ nella trattazione della diplomatica del pieno e tardo medioevo italiano comunale e signorile. Ora mi preme mettere in rilievo come il grande lavoro di indagine sul personale e sulla struttura delle grandi cancellerie fornisca sia elementi di confronto tra i diversi gradi di complessità organizzativa delle grandi cancellerie tra loro, soprattutto tra quella papale e quelle dei regni usciti dalla frammentazione del corpo politico carolingio, sia tra queste organizzazioni propriamente cancelleresche e le cosiddette ‘cancellerie minori’, sulle quali pure Bresslau si soffermò assai brevemente (p. 543).
E' dunque vero che l’atteggiamento scientifico del Bresslau autore del Manuale era improntato alla assoluta oggettività di chi espone ordinatamente i dati rinunziando a trarre un senso generale, ‘storico’, dall’osservazione dei mutamenti ricostruiti con impeccabile rigore filologico. Si veda il capitolo VI e in esso la celebre e ampia parte dedicata ai funzionari di cancelleria papali: nulla vi si trova che vada nella direzione di uno sforzo di sintesi che desse un’idea delle tensioni e delle forze storiche che condussero all’organizzazione dell’imponente apparato burocratico costituito dagli uffici di documentazione papale, sì invece ad accuratissime discussioni su singole questioni e al confronto serrato con le opere più importanti sino allora edite – quali Scrinium und Palatium di Paul Fridolin Kehr e Die päpstlichen Kanzleiordnungen von 1200-1500 di Michael Tangl, per fare l’esempio di due tra le più citate [7] –, ma sempre in relazione alla ricostruzione di singole vicende di maggiore o minore rilievo.

8. Eppure proprio l’accumulo e l’ordinamento dei dati e il susseguirsi delle singole trattazioni, concepite con tanto scrupolo di completezza e rigore, offrivano un criterio sicuro di giudizio nel confronto con situazioni almeno tendenzialmente analoghe: per esempio gli uffici di documentazione di vescovi e abati nei paesi germanofoni (p. 543 sgg.), che Bresslau definì senz’altro "cancellerie ecclesiastiche" (p. 543) e trattò limitandosi alle sole arcidiocesi – Magonza, Treviri, Colonia, Salisburgo, Brema-Amburgo, Magdeburgo. I vescovi di Magonza non disposero nei secoli X e XI di una cancelleria ben ordinata né di un personale numeroso addetto a essa. Anche nel caso degli arcivescovi di Treviri e Colonia la situazione degli organi di documentazione sembra analoga, ma è grazie alla ben documentata situazione di Salisburgo che si evince con chiarezza "quanto scarso fosse nel complesso il personale burocratico con il quale unodei più prestigiosi arcivescovi tedeschi doveva riuscire a cavarsela nei secoli XII e XIII" (p. 547). Lo stesso vale, senza dubbio, per gli arcivescovi di Brema-Amburgo e per quello di Magdeburgo, almeno prima del XIII secolo (pp.547-49). E il discorso si potrebbe agevolmente estendere ai principi laici tedeschi, per i quali i segni di una incipiente burocratizzazione della funzione di produzione documentaria si iniziano a cogliere solo a partire dal XIII secolo (pp. 550-553).

9. Insomma, verrebbe da concludere, l’uso del vocabolo 'cancelleria' per riferirsi a questi asfittici uffici di documentazione non sembra consono, almeno da un punto di vista organizzativo, e il confronto con le grandi cancellerie lo fa risaltare con chiarezza. A questo punto però — dopo avere suggerito le possibilità di analisi comparativa che il Manuale offre, nonostante la sua ostentata rinunzia a interpretare i dati — va affrontato un altro dei problemi che l'opera pone. Esso si manifesta questa volta proprio grazie a una netta presa di posizione di Bresslau, del genere di quelle di cui si è appena rilevata la carenza, relativa proprio al problema delle cancellerie minori.
La dichiarazione di inadeguatezza di un uso del termine 'cancelleria' nel trattare delle organizzazioni documentarie di certi vescovi, che in anni recenti ha costituito una delle scelte di base di importanti ricerche di diplomatica vescovile, fu scrupolosamente evitata da Bresslau, perché con essa si rischiava di introdurre, come in effetti accadde allora, distinzioni di carattere dottrinario. Lo chiarì in una lunga nota di commento alle opinioni allora espresse da H. Steinacker [8] (nota 110 alle pp. 554-55). Quest’ultimo, in sintesi, postulava una netta distinzione in Germania tra il notariato dei principi e la cancelleria dei sovrani e le loro rispettive attività documentarie, laddove Bresslau vedeva invece una differenza essenzialmente quantitativa e una sostanziale omogeneità tra le due categorie di scrittori di documenti. D’altra parte va ricordato che Bresslau non aveva mai utilizzato in quelle stesse pagine i concetti sia di documento pubblico sia di documento privato (si vedano,invece, p. 590 sgg. e p. 630 sgg.).

10. Reagiva, in questo modo, alla pericolosa deriva che la diplomatica rischiava di imboccare, quella di costringere la complessa e multiforme realtà documentaria medievale entro categorie precostituite, imponendo, per esempio, al mondo tedesco una concezione del notariato quale di fatto si poteva riscontrare, almeno per i secoli centrali del medioevo, soltanto nella penisola italiana. Non contrastare questa tendenza avrebbe significato dare il via libera all’allontanamento della diplomatica dal metodo storico elaborato nel corso della grande stagione ottocentesca della storiografia tedesca, metodo cui Bresslau aveva legato indissolubilmente tutta la sua attività scientifica e di cui proprio nel Manuale aveva offerto un impeccabile esempio [9].
Andrebbe qui aggiunto che la linea interpretativa relativa alle ‘cancellerie minori’ cui ora si accennava, se vista nel contesto del Manuale o, con maggiore precisione, di quelle sue parti dedicate ai documenti dei principi ecclesiastici e laici (si vedano, per es., le pagine dedicate alla ‘Sigillatura di documenti non regi’, come recita il titolo corrente, p. 630 sgg.), denuncia che per certi riguardi il pensiero del Bresslau non era giunto a una sintesi unitaria. In relazione al problema della distinzione tra documento pubblico e documento privato è possibile infatti, a mio parere, riscontrare nella trattazione di Bresslau dei punti di tensione, quasi delle incrinature. La questione pubblico/privato si rivelava così come uno dei punti ‘sensibili’ della Urkundenlehre, suscettibile almeno potenzialmente di sviluppi divergenti rispetto alla teoria dominante di H. Steinacker e O. Redlich [10].
Non mi sembra opportuno qui andare oltre questo semplice accenno. Vorrei solo aggiungere che l’incertezza o, se si vuole, la latente contraddizione rilevata non costituisce certo un elemento ‘a carico’ del Manuale, ma anzi un ulteriore segno del dinamismo cui si accennava all’inizio di questo scritto. Con le critiche rivolte alla posizione di Steinacker si introducevano spunti in direzione di una migliore comprensione delle vicende della produzione documentaria presso principi ecclesiastici e laici, signori territoriali e città, tra le quali, non ultimi, i comuni italiani.

11. Proprio dell’Italia resta da parlare e per farlo vorrei continuare a occuparmi del cap. VIII. E' proprio dall’analisi della parte che in esso è dedicata all’Italia che emerge con chiarezza quanto prima dicevo circa il limite cronologico e geografico-istituzionale di cui soffre il Manuale. All’Italia ‘non cancelleresca’, vale a dire all’Italia ‘diplomatica’ al di fuori dalla cancelleria papale e delle cancellerie dei regni meridionali, è dedicata una trattazione soddisfacente solo per l’alto medioevo.
Mi sembra opportuno rendere esplicito a che cosa corrisponda il giudizio di soddisfazione appena espresso. Lo farò soffermandomi sulle pagine iniziali del cap. VIII, che costituiscono, a mio parere, una delle parti meglio riuscite del libro. Esse concentrano in una trattazione agile e sintetica le principali caratteristiche che contribuiscono a fare del Manuale un capolavoro: informazione completa sulle fonti secondarie del lavoro storiografico — solo quelle, si capisce, veramente utili —, ricorso critico e autonomo alle fonti primarie e conseguente serrata discussione dei risultati delle migliori, o solo più celebri, ricerche. Si prendano in esame le pagine sugli scrittori professionisti di documenti nell’Italia altomedievale non occupata dai longobardi. Già la definizione — Italia non occupata dai longobardi e non Italia romano-bizantina [11] — denuncia un rifiuto metodico degli schemi preconfezionati, rifiuto che non si risolve in una rinuncia, bensì nella volontà di giungere, mediante una serrata critica dei documenti, a risultati autonomi e, entro i limiti imposti dalle fonti, sicuri. In queste pagine il bersaglio polemico è la Italienische Verfassungsgeschichte di Ernst Mayer, in due volumi, uscita a Lipsia nel 1909. Nei brevi capoversi in cui Bresslau tratta dei curiales napoletani e degli scrittori di documenti del ducato di Gaeta (pp. 536-37) commenta seccamente in nota l’infondatezza di certe ipotesi del Mayer (p. 537, nota 24) e la frettolosa superficialità della sua lettura dei documenti, che lo inducono talvolta a conclusioni del tutto erronee (p. 537, nota 25). Di questo Mayer, insomma, c’era poco da fidarsi: non solo aveva proceduto assai alla buona nella lettura delle fonti, ma aveva anche, a proposito dei notai del territorio longobardo, creduto indebitamente di poter trarre conclusioni sul periodo longobardo sulla base di documentazione posteriore, relativa al notariato italiano in epoca carolingia, che Bresslau riteneva, e qui non possiamo essere pienamente d’accordo con lui, modellato dalla legislazione franca (p. 540 sg.; si veda anche nota 157, p. 565).

12. Insomma: limpidezza del discorso e serrata argomentazione, come esempio di una abitudine critica di apertura al confronto e anche alle asprezze della polemica, in un quadro diserietà e rigore che, per esempio, sembravano difettare anche in un’opera importante come quella di Mayer. Importa poi osservare che sui temi classici della diplomatica del documento notarile italiano — quali il valore del documento in giudizio, l’evoluzione verso l’instrumentum publicum, l’acquisizione da parte del notaio della fides publica (si veda, per esempio, p. 590 sgg.), il valore giuridico della minuta, ecc. — Bresslau si esprimeva in modo ancor oggi in gran parte attuale. Questa, se ce ne fosse bisogno, è una conferma di quanto la diplomatica del documento notarile, almeno nei suoi aspetti più tradizionali, debba alla ricerca diplomatistica tedesca.
Certo, anche in un’opera attenta e rigorosa come quella di Harry Bresslau erano inevitabili alcune genericità. Va, d’altra parte, ricordato, anche se ai lettori apparirà scontato, che nelle parti dedicate al notariato italiano Bresslau scontava la grave arretratezza della storiografia italiana. Gli studi di cui si serviva erano costituiti essenzialmente dai lavori di Ficker, di Handloike [12], dal vecchio lavoro di F. Oesterley sul notariato tedesco [13]. Poteva così lasciarsi andare ad affermazioni talvolta troppo recise, come quella secondo la quale "già dal XIII secolo [in Italia] i notai di una città appartenevano tutti a collegi organizzati corporativamente e soggetti alla sorveglianza delle autorità comunali" (p. 576). Di un fenomeno, pure tipicamente italiano, quale quello delle società cittadine dei notai, si faceva un istituto di generale diffusione nella penisola, appiattendo in una indistinta omogeneità una realtà che sappiamo essere molto differenziata.

13. Ma i problemi della parte italiana tutto sommato non stanno in queste innocenti generalizzazioni. Se torniamo alla questione delle "cancellerie dei principi ecclesiastici e laici" su cui ci si era soffermati prima, va ricordato che Bresslau, impegnato nella polemica interna alla diplomatica di lingua tedesca, aveva condotto, fin dove le edizioni documentarie esistenti glielo avevano permesso e talvolta ricorrendo addirittura agli originali, una analisi non superficiale del dettato dei documenti. Il discorso si limitava però rigorosamente ai territori di lingua tedesca, non accennando neppure alle ‘cancellerie minori’ del territorio italiano. Anche quando passava dalle cancellerie dei principi a un breve excursus sugli "scrittori delle città" ("städtisches Schreiberpersonal") tardomedievali (pp. 563-64) nessuno spazio veniva riservato al personale impegnato in quest’ambito nei comuni italiani [14].
In questo il Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia riserva al lettore italiano più di una delusione. Come spiegare una così notevole lacuna?

14. In realtà un accenno agli uffici di documentazione dei comuni italiani sta nelle pagine che nel medesimo cap. VIII vengono dedicate al notariato italiano (p. 564 sgg.), basate essenzialmente sulle Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens di Julius Ficker (4 voll., Innsbruck 1868-74). Tale accenno è confinato in una nota e nella sua posteriore integrazione, riunite nell’edizione italiana alle pp. 571-72, nota 188. Nella nota si accennava al fatto che quei notai di consoli cittadini, di podestà ecc., che si iniziano a trovare nei documenti italiani a partire dal XII secolo, erano con ogni probabilità "funzionari delle cancellerie cittadine presi dal numero dei notai palatini pubblici, come risulta chiaramente dai posteriori statuti", aggiungendo che notai pubblici erano anche in gran parte "i notai e cancellieri dei funzionari imperiali italiani" e quelli dei primi signori trecenteschi, "finché a poco a poco le cancellerie dei signori regionali si organizzarono stabilmente". Lo studio di queste cancellerie veniva però lasciato ai colleghi italiani.
Questi ultimi nel frattempo avevano iniziato a occuparsi del problema. L’opera di Demetrio Marzi su La cancelleria della repubblica fiorentina è del 1910 (Rocca S.Casciano), la prima parte degli Studi e ricerche di diplomatica comunale di PietroTorelli del 1911. Bresslau faceva in tempo a darne notizia in una breve nota nei Nachträge und Verbesserungen [15], nella quale elencava le città delle quali Torelli, nel suo lavoro "diligente e accurato", aveva raccolto le più antiche attestazioni "sui funzionari di cancelleria" e si dichiarava d’accordo con lui – contro le affermazioni di Ficker, cui aveva in un primo tempo aderito (cfr. p. 574) – su una singola questione relativa ai notai romagnoli. Infine citava "l’eccellente lavoro specialistico sui funzionari della cancelleria fiorentina" di Marzi, rimandando alla notizia che ne aveva scritto per il "Neues Archiv" del 1912, il cui primo fascicolo era uscito nel 1911 [16].
In realtà, come è noto, Torelli era stato assai critico verso l’uso del termine ‘cancelleria’ negli studi di diplomatica comunale, per ragioni legate alla natura stessadella produzione documentaria comunale, affidata a una pluralità di uffici non riducibili a unità se non in astratto; e aveva concluso, con spirito analogo a quello cui Bresslau si era mostrato fedele in più luoghi del Manuale, come fosse necessario seguire "passo passo i documenti non per cercare se nel comune si trovino istituti di una determinata natura, ma per determinare la natura degli istituti che vi sitrovano" [17]. In questo la critica al lavoro di Marzi, cui pure Torelli riconosceva grandi meriti, era esplicita. Bresslau invece con la ripresa del termine in quella nota del Manuale e con le lodi incondizionate a Marzi nella notizia uscita sul "NeuesArchiv" aveva scelto una linea di coerenza con quanto aveva affermato a proposito delle ‘cancellerie’ dei principi tedeschi. In ogni caso le due opere erano uscite troppo tardi [18] perché nel primo volume della rinnovata edizione del Manuale se ne trovasse più che un pallido riflesso. Eppure si resta con l’impressione che Bresslau abbia trascurato un tema fondamentale per la diplomatica italiana, che, del resto, non si poteva dire fosse una scoperta originale di Marzi e Torelli [19].

15. Il mio intervento — e così concludo, pur in modo provvisorio — costituisce un tentativo di rispondere all’invito implicito di Giovanna Nicolaj di ‘rimettere in circolo’ il Manuale di Harry Bresslau. In questo senso la sua traduzione italiana, nel complesso a mio parere davvero ottima [20], compie il primo e decisivo passo in questa direzione. Il punto di vista che ho assunto è quello della storia della disciplina, ambito che negli ultimi anni ha destato in Italia rinnovati interessi [21]. Particolarmente promettente mi è sembrato, in questo primo sondaggio, lo studio dei rapporti e delle influenze tra ricercatori di lingua tedesca e ricercatori italiani tra Ottocento e primi del Novecento. E’ auspicabile che in futuro cresca l’interesse per questi temi, il cui approfondimento potrebbe essere utile anche ad acquisire maggiore consapevolezza della specificità degli sviluppi della nostra disciplina in Italia nel confronto con le altre nazioni europee. Una base per riflettere sulle scelte future.


[1] A. M. Voci, Harry Bresslau, l’ultimo allievo di Ranke, in "Bullettino dell’IstitutoStorico Italiano", 100 (1995-1996), pp. 235-281, con una appendice di lettere di e a Harry Bresslau alle pp. 282-295. Su Harry Bresslau cfr. anche H. Fuhrmann, "Sind eben alles Menschen gewesen". Gelehrtenleben im 19. und 20. Jahrhundert, München 1996, pp. 104-108.

[2] Voci, Harry Bresslau cit., p. 264.

[3] Questa edizione, datata 1912-1915 e stampata a Leipzig dal Verlag von Veit & Comp., priva di indici analitici, è definitiva per quanto riguarda i capitoli I-XV, vale a dire il primo volume (costituito da 9 capitoli) e i primi 6 capitoli del secondo.

[4] Klewitz nella sua Premessa alla seconda parte del secondo volume (pp. 677-78) non fa precisazioni riguardo al secondo di questi quattro capitoli ("Le materie scrittorie", pp. 1093-1123): si deve ritenere che l’opera di revisione sia dovuta a lui stesso. Egli afferma del resto di aver utilizzato appunti.

[5] Voci, Harry Bresslau cit., p. 263-264.

[6] Altri ottimi esempi di questa concezione si hanno nel capitolo XVI ("Ladatazione dei documenti"). Si leggano, p. es., le pagine in cui si discute delle cause degli errori nella data cronica in documenti genuini: a p. 1061 Bresslau afferma che "anche un errore nella data può addirittura assurgere a criterio della genuinità", dato che quando accade che tali errori nei documenti di una cancelleria si presentano in serie, un errore presente in un documento inseribile in una tale serie può servire come argomento in favore, se non della sua genuinità, almeno dell’uso da parte del suo redattore di un modello genuino. Le citazioni di passaggi che fanno del Manuale un prontuario di critica diplomatistica si potrebbero facilmente moltiplicare.

[7] Rispettivamente edite in "Mitteilungen des Instituts fur Österreichische Geschichtsforschung", Erg. 6 (1901), pp. 70-112 e, come volume singolo, Innsbruck 1894.

[8] In particolare in H. Steinacker, Die Lehre von den nicht königlichen (Privat-) Urkunden vornehmlich des deutschen Mittelalter, in Grundriss der Geschichtwissenschaft zur Einführung in das Studium der deutschen Geschichte des Mittelalters und der Neuzeit, a cura di A. Meister, 1, Leipzig1906-19071; ma si veda anche una recensione dello stesso in "Mitteilungen des Instituts fur Österreichische Geschichtsforschung", 29 (1908), pp. 347-354.

[9] Si vedano le frequenti annotazioni metodologiche: per esempio p. 97 n. 64, p. 291 n. 720, p. 301, pp. 373-374, p. 545 n. 70, p. 589 n. 46, p. 632 ecc.

[10] La tensione cui si accenna consiste, in estrema sintesi, nel proporre da un lato la dottrina tradizionale della distinzione documento pubblico/documento privato – per cui sarebbero documenti pubblici quelli emessi "da sovrani indipendenti o semiindipendenti" e privati tutti gli altri (p. 11) –, aggiungendo d’altro lato che però nel tardo medioevo anche i documenti di principi, signori territoriali e città "posseggono un carattere pubblico" (p. 11 e cfr. n. 110 pp. 554-555 e p. 630 sgg.). Ora non risulta ben chiaro quali siano gli elementi che nel tardo medievo si introducono nei documenti in questione e contribuiscono a farne documenti di carattere pubblico: a p. 630 si dice che l’introduzione del sigillo come mezzo di convalida nei documenti dei "grandi ecclesiastici e laici dell’impero" avrebbe provocato "un accostamento formale dei documenti privati a quelli regi", anche se le differenze tra le due classi non sarebbero scomparse del tutto, ma sarebbero andate sempre più sfumando. In ogni modo, aggiunge subito Bresslau, "il documento dei principi del tardo Medioevo nei suoi tratti essenziali si distingue appena dal documento regio": ragione principale di ciò sta nel fatto che il documento principesco ha "ormai la medesima rilevanza giuridica". Il problema, evidentemente, sta proprio qui: la distinzione documento pubblico/documento privato è una distinzione di ordine giuridico, non diplomatistico. Lo stesso Bresslau non aveva mancato di rilevare, in un passaggio, che la diplomatica non aveva gli stessi compiti e i medesimi scopi di una scienza storica del diritto (p. 580). Eppure non aveva potuto evitare di mescolare criteri di analisi di tipo diplomatistico, che stanno alla base della polemica contro Steinacker, con criteri di tipo giuridico, che lo portavano, p. es., a convenire con Redlich su una presunta riacquisizione da parte del documento privato – grazie, occorre ritenere, alla sua sigillatura – del valore negoziale dispositivo (p. 630, n. 216 e testo corrispondente).

[11] La definizione di Italia non occupata dai longobardi è già nell’opera di E. Mayer citata subito oltre nel testo. Va poi aggiunto che Bresslau utilizza successivamente, p. es. a p. 601, espressioni, come "territorio lombardo-tosco", mutuate chiaramente dagli storici del diritto.

[12] M. Handloike, Die lombardischen Städte unter der Herrschaft der Bischöfe und die Entstehung der Communen, Berlin 1883.

[13] F. Oesterley, Das deutsche Notariat, 2 voll., Hannover 1842.

[14] Anche nel capitolo dedicato agli archivi (cap. V, pp.137-167), nel brevissimo spazio riservato agli archivi delle città (pp. 166-167) non si accennava neppure agli archivi dei comuni italiani, né, per fare un altro esempio, nel cap. IV ("Tradizione e riproduzione dei documenti", pp. 83-136) – che pure tratta di cartulari, libri traditionum, narrazioni storiche con documenti e, soprattutto, di registri di cancelleria, giungendo sino ad accennare ai registri delle città tedesche (n. 222 p. 134 e testo corrisp.) – si accenna minimamente a una consimile, e sappiamo quanto fiorente, produzione documentaria delle città italiane.

[15] Tali integrazioni, che prima si è detto essere nell’edizione italiana riunite alle relative note al testo, erano poste in appendice al I vol. dell’Handbuch pubblicato nel 1912 (pp. 739-46) e non dovrebbero essere posteriori alla Premessa dell’autore, datata Strasburgo, 1° dicembre 1911.

[16] "Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde", 37 (1912), p. 358 sg. La nota si apre con un caldo riconoscimento del valore dell’opera ["Eine Frucht lanöhriger, sehr gründlicher und dankenswerter Studien ist das umfangreiche Werk von Demetrio Marzi (...)"] e continua con una breve ma accurata descrizione del contenuto del libro, concludendo che esso "die Literatur der Geschichte von Florenz und der italienischen Diplomatik in erfreulicher Weise bereicherthat".

[17] P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, in "Atti e memoriedella R. Accademia Virgiliana di Mantova", IV (1911), pp. 7-11 (la frase citata è a p. 11). Ho utilizzato la ristampa anastatica a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Roma 1980 (Studi storici sul notariato italiano,V).

[18] Le pagine introduttive al volume di Marzi erano state però anticipate nella "Rivista delle Biblioteche e degli Archivi", XIX (1908), pp.33-42.

[19] Si veda, p. es., M. A. von Bethmann-Hollweg, Der germanisch-romanische Civilprozess im Mittelalter, vol. III, Bonn 1874, p. 159 sgg., molte considerazioni del quale sono passate in F. Novati, La giovinezza di Coluccio Salutati, Torino 1888, pp. 68e segg., p. es. p. 76, n. 1; o le pagine che H.-U. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, 2 voll., Berlin 1907 ha dedicato ai notai officiali del comune di Bologna.

[20] Ho tralasciato qui di segnalare le scelte linguistiche e redazionali esplicite (cfr. pp. X-XI, XV-XVI) o implicite dato che il mio intervento non intendeva essere una recensione della traduzione italiana.

[21] Ricordo qui i contributi dovuti a S. P. P. Scalfati, dei quali citerò soltanto Cipolla, Schiaparelli e la scienza del documento, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento, Atti del convegno di Studio (Verona, 23-24 novembre 1991), a cura di G. M. Varanini, Verona 1994, pp. 145-163; e A. Pratesi, Un secolo di diplomatica in Italia, in Cent’anni di paleografia e diplomatica (1887-1986), a cura di A.Petrucci e A. Pratesi, Roma 1988, pp. 81-97.

Antonio Olivieri


    Ultimo aggiornamento:
    11 febbraio 2010

    Scrineum
    © Università di Pavia